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Ilva di Taranto, l’industria che uccide

Nell’inferno di Taranto non si fermano le morti causate dall’inquinamento. Nomi scritti nell’orribile elenco della sofferenza, un copione che si ripete, al quale però non ci si può abituare. Un’intera comunità, quella di Taranto, è stata barattata dai governi in cambio del profitto, a un prezzo troppo alto da pagare, pur di mantenere attiva una delle industrie siderurgiche più importanti d’Europa. Oggi, l’Ilva dà lavoro a oltre 14mila persone, ma ne condanna molte di più a subire gli effetti catastrofici dei fumi tossici che si levano dalle ciminiere dell’acciaieria. Le vittime sono soprattutto bambini e adolescenti, predisposti ad ammalarsi di tumori a causa dell’inquinamento con un incidenza maggiore del 30 % rispetto alla media regionale dei tumori infantili, il 54% in più per quanto riguarda la mortalità dei bambini.

Ci sono altri “effetti collaterali” giornalieri, come i continui problemi respiratori, attacchi d’asma, dermatiti e occhi che lacrimano, sintomi acuti che si manifestano continuamente e che costringono spesso i cittadini esasperati a rivolgersi alle strutture ospedaliere locali. Ha vinto l’Ilva, fin’ora, con i suoi fumi tossici, le nubi di veleni che arrivano dentro le case e le scuole, costringendo tutti a sbarrare le imposte di casa anche in piena estate. A farne le spese, sono soprattutto gli abitanti dei quartieri Tamburi, Paolo VI e Città Vecchia-Borgo. Una situazione drammatica e ben nota allo Stato italiano che, però, quando è intervenuto, lo ha fatto sempre e solo a favore dello stabilimento, al fine di scongiurarne la chiusura.

L’inchiesta e gli arresti

A seguito della crisi finanziaria del Gruppo Riva, a capo dell’Ilva dal 1995, interviene lo Stato italiano per salvare il più importante impianto siderurgico della nazione. Il 26 luglio del 2012, viene stipulato con urgenza un accordo d’intesa per la bonifica e la riqualificazione di Taranto; a firmarlo sono il Ministro dell’Ambiente, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Ministro dello Sviluppo economico, la Regione Puglia, la Provincia e il comune di Taranto. Lo stesso giorno, il Gip di Taranto, Patrizia Todisco, fa mettere i sigilli agli impianti dell’Ilva e sequestra l’area a caldo dello stabilimento, definendola “fonte di malattia e morte”.

Contemporaneamente finiscono agli arresti per disastro ambientale Emilio Riva e suo figlio Nicola Riva, insieme ad altre sei persone, fra le quali il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Secondo il Gip, chi gestiva l’impianto ha perseverato nell’attività inquinante “con coscienza e volontà per la logica dei profitti, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.

Il sequestro viene confermato il 7 agosto 2012 dal Tribunale del Riesame. Il Governo, però, studia un nuovo decreto che permetta la riapertura dello stabilimento e il rientro di migliaia di operai che protestano a Taranto per difendere il proprio lavoro, e alla fine riesce nel suo intento. Nel corso del lungo processo gli imputati del gruppo Riva difendono il proprio operato, C’è chi, come l’ex direttore Luigi Capogrosso, elenca gli interventi fatti nel tempo a tutela del territorio circostante e dei cittadini, come le barriere frangivento che avrebbero dovuto contenere lo spargimento di polveri dei parchi, la bagnatura e filmatura delle colline di polveri dei parchi dello stabilimento e le misure di contenimento delle emissioni di benzopirene.

Trattative e acquirenti

Il 14 Aprile del 2013, la città si reca alle urne per votare tramite referendum cittadino la chiusura dell’Ilva. Sono in 33.838 tarantini a votare, il 19,55% dei cittadini, ciò non permetterà di raggiungere il quorum necessario per rendere valido il referendum, ma il volere della città è evidente: il 92,62% dei votanti dice Si alla chiusura dell’area a caldo dell’Ilva. Invece, nel corso degli anni successivi, si continuano a cercare acquirenti, vengono nominati diversi commissari, fino a giungere al 2017, quando le aziende vengono trasferite dal gruppo Ilva al gruppo Am Investco Italy S.p.A, che ha firmato un contratto col quale si impegna a realizzare il piano ambientale dell’Ilva entro il 2023.

Il piano ambientale prevede un investimento di 1.137 milioni di euro da suddividere per vari interventi, fra i quali la copertura dei parchi minerari a tutela del territorio circostante, per le cokerie e per il piano acque. Si menziona anche l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per mitigare l’impatto ambientale, ad esempio tramite Dri (Direct Reduced Iron) che, attraverso l’utilizzo del gas, avrebbe eliminato il processo altoforno-cokeria e ridotto le emissioni di anidride carbonica nell’aria.

Tuttavia la Dri ha un costo oneroso in Italia rispetto ad altri Paesi del mondo per via del prezzo del gas, quindi avrebbe innescato come conseguenza un aumento del prezzo dell’acciaio. Di fatto, un comunicato stampa del 5 giugno 2017, afferma che l’Ilva ha ricevuto un prestito dallo Stato di 266 milioni di euro per attuare il piano di tutela ambientale e sanitario. Nel novembre del 2018, l’Ilva finisce ufficialmente nelle mani del magnate indiano Lakshmi Mittal, proprietario di ArcerolMittal, primo produttore mondiale di acciaio.

Ilva, peggiora impatto ambientale

Malgrado siano state previste negli anni l’utilizzo di ingenti somme per diminuire il drammatico impatto ambientale e sanitario, oggi i dati parlano di un incremento delle emissioni nocive. Uno studio dell’Arpa Puglia mette a confronto i dati dei mesi di gennaio-febbraio del 2018 con lo stesso bimestre del 2019 che evidenzia un preoccupante aumento di idrocarburi policiclici aromatici del 195%, una concentrazione di benzene aumentata del 160% e una più che raddoppiata concentrazione di idrogeno solforato. Se i numeri non bastassero a destare preoccupazione, basta vedere gli effetti reali dell’inquinamento: l’elenco di bambini, adolescenti e adulti che si ammalano di gravi patologie e muoiono prematuramente non ha mai smesso di essere aggiornato e continua ad allungarsi.

Le rassicurazioni in Italia e le nuove accuse in Francia

Intanto, il 20 Marzo 2019, l’amministratore delegato della ArcerolMittal, l’ing. Matthieu Jehl, dichiara che “tutte le emissioni sono rigorosamente conformi e sotto i limiti di norma” e che la produzione non è aumentata, mentre, dice Jehl, si prosegue con la realizzazione delle strutture a copertura del parco minerario e del parco fossile. Difficile, oramai, fidarsi sulla parola. Anche la Francia, però, ha qualcosa da obbiettare alla condotta di Lakshmir Mittal, proprietario dell’acciaieria francese Fos-sur-Mer. La produzione di acciaio è stata bloccata in ottobre per aver superato i limiti delle emissioni ambientali e gli è valsa una multa da 15mila euro per inquinamento ambientale.

In Italia continua la brutta abitudine di nascondere o ignorare la correlazione tra inquinamento e maggiore incidenza di malattie gravi nelle aree intorno all’Ilva, mentre in Francia l’agenzia regionale dell’aria Air Paca ha confermato la stretta connessione tra inquinamento atmosferico industriale dovuto all’attività produttiva dello stabilimento francese e i rischi direttamente legati alla salute per la popolazione.

Una politica complice

In casa nostra, tutti i governi, a cominciare dal 2010, partendo da Berlusconi, passando per Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, hanno messo per iscritto e mantenuto negli anni l’impunità per i vertici dello stabilimento e i loro delegati, riparandoli dal rischio di incorrere in denunce penali per la mancata attuazione di un vero piano di risanamento degli impianti e di bonifica della zona. Decreto dopo decreto, per mano di tutti i governi, lo Stato si è dimostrato indifferente alle drammatiche problematiche che hanno portato ad ammalarsi e a morire centinaia di persone. Il Decreto denominato “Salva-Ilva”, in barba alla costituzione italiana e alle disposizioni di sequestro del Tribunale, ha tolto i sigilli e protetto soprattutto gli amministratori, i commissari straordinari e i futuri acquirenti dello stabilimento, rendendosi complici della reiterazione dei reati a discapito della salute pubblica e della tutela dell’ambiente.

Condannata l’Italia, ma l’Ilva non si chiude

A gennaio del 2019, la Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, alla quale si sono rivolti circa 180 tarantini, ha condannato l’Italia e i governi che hanno continuato a rinviare il rispetto dei vincoli ambientali, mancando di tutelare la salute dei cittadini che vivono nelle zone dello stabilimento. La sentenza, però, rigetta la richiesta di fermare subito la produzione dell’impianto siderurgico, chiedendo semplicemente che sia attuato il prima possibile il piano anti-inquinamento. Così, la popolazione torna ad affollare le piazze, continua la sua protesta senza fine, urla il proprio diritto di avere potere decisionale riguardo al futuro della propria terra e alla propria salute.

Oggi, l’attuale governo continua a tacere sul caso Ilva, non sembra vedere i cortei in marcia a Taranto, dove associazioni, genitori “orfani di figli” e una comunità intera chiede risposte e vede ancora ignorata la legittima richiesta di resoconti seri e veritieri relative alle spese e alle procedure effettuate per bonificare il territorio e tutelare la salute pubblica. Taranto, malgrado tutto, è tenace e continua a marciare e protestare con ogni mezzo lecito a disposizione.

di Anna Luisa Maugeri

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