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Ilva: si svendono le ultime risorse alle multinazionali

Dell’Ilva di Taranto s’è parlato tanto: è la più grossa acciaieria d’Europa; prima che la dissennata gestione della famiglia Riva costringesse la Magistratura a intervenire e la consegnasse al commissario Bondi, era la più grande azienda siderurgica d’Italia, l’unica che avesse caratura internazionale in un orizzonte di realtà medie e piccole. Adesso, per il suo salvataggio (e quello di un’intera città che vive su di lei e sull’indotto), il nuovo commissario Gnudi deve trovare in fretta almeno 1,8 mld di € per il piano di risanamento ambientale, oltre a molte altre risorse per rilanciare un’industria che, da troppo tempo, marcia a rallentatore in un comparto dove concorrenza e competitività sono fortissime.

Quello dell’acciaio è un mercato in piena emergenza; per anni è cresciuto vorticosamente trainato dalla produzione e dai consumi cinesi: nel 2013 la produzione ha raggiunto i 1.617 ml di tonnellate di cui il 45/50% prodotto laggiù, e cinesi sono sei dei primi dieci gruppi al mondo. Tuttavia, la frenata evidente dei consumi di Pechino, unita agli effetti della crisi mondiale che dal 2008 falcia gli investimenti, ha determinato una sovrapproduzione che porta a una concorrenza spietata, e fa pesare sull’Europa una massa di acciaio a basso prezzo (e mediocre qualità).

 Tuttavia, quello europeo, anche se in contrazione, resta uno dei mercati più interessanti perché predilige prodotti di qualità elevata e con caratteristiche superiori come gli acciai speciali e quelli inox, che hanno margini maggiori fino a cinque o sei volte gli altri (ovviamente per chi li sa produrre).

Sia come sia, Gnudi, per trovare possibili investitori s’è rivolto al gruppo Marcegaglia, che è un grande cliente dell’Ilva; l’azienda mantovana punta alla verticalizzazione delle proprie attività ed è assai interessata agli stabilimenti del Nord Italia, ma l’acciaieria di Taranto è un boccone troppo grosso, così è nata l’idea di fare una cordata e i Marcegaglia sono andati a Londra a sondare Arcelor-Mittal, il colosso franco-indiano, di gran lunga il numero uno del settore.

Da prima che cominciasse la crisi, il comparto è interessato da un processo di concentrazione che è tutt’altro che esaurito, e ha visto le grandi aziende impegnate in un risiko che ha per posta il dominio futuro dei mercati. In questo scenario, la scelta di Arcelor–Mittal può sembrare ottima, perché ha le disponibilità finanziarie di fare gli investimenti necessari all’enorme sito di Taranto a cui è interessata, mentre i siti minori andrebbero appunto ai Marcegaglia. Ma abbiamo detto sembrare.

La multinazionale non ha alcuna intenzione di riattivare la piena capacità produttività dell’Ilva, essa punta a mantenere le produzioni a maggior valore aggiunto (e fino a un certo punto, per non andar in concorrenza con le proprie) abbandonando le altre; difenderebbe così la propria leadership attuale e impedirebbe ad altri colossi del settore di mettere piede in Europa con una piattaforma produttiva così temibile. Inoltre, la significativa diminuzione della produzione, servirebbe a evitare un intervento dell’Antitrust Europeo.

In questa ottica, il “salvataggio” sarebbe poco più d’un favore alla grande industria, perché gli esuberi (leggi più correttamente i licenziamenti) fioccherebbero; certo, magari ci sarebbe un ricorso massiccio alla cassa integrazione e ad altri ammortizzatori, ma nella sostanza per i lavoratori e per l’indotto non cambierebbe granché, e in più lo Stato (cioè la collettività) dovrebbe cacciare un monte di denaro.

In realtà, anche i colossi cinesi sarebbero molto interessati all’affare, perché considerano l’Italia una base ottimale per un loro ingresso in un mercato remunerativo come quello europeo, e questo per la posizione geografica, l’esperienza commerciale e le competenze e specializzazioni che può offrire il sito, ma l’ordine del Governo di Pechino è quello di dare la priorità assoluta alla concentrazione fra produttori cinesi prima di pensare ad acquisizioni all’estero, e questo chiude il discorso. Per il resto le aziende russe stanno scontando operazioni sbagliate, e non sono in grado di lanciarsi in grosse acquisizioni, mentre quelle ucraine hanno al momento altro da pensare nel loro stesso Paese.

L’unica alternativa rimasta sarebbe la Posco sud coreana, quinta al mondo, che in estremo oriente si trova presa in mezzo fra la Nippon Steel–Sumimoto e il gruppo dei produttori cinesi, e vorrebbe entrare in Europa per le specifiche caratteristiche del mercato; per questo ha già aperto un piccolo centro di lavorazione a Verona e si guarda intorno con interesse. Potrebbe essere l’unica soluzione per un rilancio vero dell’Ilva e la tutela di occupazione e indotto.

Purtroppo, al momento e a meno di colpi di scena imprevisti, la vicenda sembra incanalata verso l’Arcelor–Mittal. E straordinario come il Sistema Italia trovi sempre il modo migliore per farsi male.

di Salvo Ardizzone

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