Ilva tra incapacità politica e malaffare
L’Ilva è stato uno di quei delitti commessi a sangue freddo, messo in atto scientemente dalla politica italiana che come un killer ha mosso le pedine perché il risultato non fosse diverso da quello che poi è stato. L’Ilva, il più grande stabilimento siderurgico europeo, è stato abbandonato dall’Arcelor Mittal e le motivazioni sono da ricercare nella bieca e astrusa politica messa in atto dagli ultimi governi. A Taranto saranno 8.700 i dipendenti che rischiano di rimanere a casa. Vale la pena ricordare che l’ex Ilva rappresenta l’1,4% del Pil italiano. La fabbrica è da anni al centro delle polemiche per gli effetti devastanti dell’inquinamento, con i cittadini del quartiere Tamburi costretti a scegliere tra la salute ed il lavoro.
Le lacrime di coccodrillo che si stanno riversando su Taranto non devono fare dimenticare il perché di tutto questo. Non bisogna dimenticare la figura barbina del ministro Di Maio quando nella doppia veste di vice premier e ministro del Lavoro si presentò a Taranto. In quell’occasione, l’attore Marescotti chiese ad un Di Maio devastato e con gli occhi bassi: “Ministro, mi guardi. Sull’Ilva avete fatto pubblicità ingannevole” ed è da li che bisogna ripartire per capire quello che è successo in questi giorni.
Ilva, dal gruppo Riva ad ArcelorMittal
Dopo la fallimentare gestione dell’imprenditoria italiana della famiglia Riva, travolta dai guai giudiziari ed un periodo di successivo commissariamento, l’Ilva è passata al gruppo ArcelorMittal. Il passaggio venne ratificato dall’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e successivamente da Di Maio, suo successore. L’accordo prevedeva 18 mesi d’affitto al termine dei quali l’ArcelorMittal avrebbe dovuto rilevare la proprietà per 1,8 miliardi, con accordi che avrebbero previsto investimenti ambientali per 1,1 miliardi, industriali per 1,2 miliardi con la promessa di mantenere gli stessi livelli occupazionali.
Gli accordi prevedevano uno scudo penale per gli amministratori dell’azienda, scudo che li avrebbe dovuti tutelare ma che è stato messo in discussione dal governo Lega-5Stelle. Per l’ArcelorMittal la presenza dello scudo è fondamentale per proseguire il cammino, ma è arrivata anche la notizia della chiusura entro il 13 Dicembre di uno degli altiforni imposta dalla magistratura in mancanza della messa a norma. Ciliegina sulla torta la crisi del settore siderurgico.
L’ArcelorMittal appare irremovibile anche se il governo nelle ultime ore ha avuto un sussulto di dignità facendosi vedere, per la prima volta, unito su un argomento. La mossa appare sempre più la classica porta chiusa dopo che i buoi sono scappati dalla stalla. Secondo l’azienda, il contratto di affitto e comodato con gli ex commissari Ilva prevede una clausola di recesso per “l’affittuario” degli stabilimenti. Il diritto è assicurato nel caso in cui un provvedimento legislativo renda impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto o irrealizzabile il piano industriale. Il governo nega l’esistenza di questa clausola. Secondo Carlo Calenda, che in qualità di ministro firmò gli accordi, la clausola c’è ma ArcelorMittal non potrebbe chiudere autonomamente gli altiforni, perché il diritto di recesso va prima accertato dal Tribunale.
In Italia non esistono colpevoli
Le colpe vengono da lontano, gestioni nefande, politica assente o se presente solo per promettere in attesa dei voti. Ultimi in ordine di tempo i grillini che nel 2018 si erano battuti per la chiusura dell’Ilva salvo poi ripensarci una volta assisi al potere. Patuanelli difende l’Ilva, ma dovrebbe ricordare da dove nasce l’idea dell’abolizione dello scudo penale, dalla sua parte politica, ma anche il Pd è fermo al palo. La politica sempre più blanda messa in atto da Zingaretti è acqua fresca e pur essendo stato sempre favorevole al siderurgico non ha impedito l’abolizione dello scudo penale. La stessa cosa ha fatto la Lega con Salvini che quando era al governo con i 5Stelle non si oppose alla cancellazione dello scudo.
di Sebastiano Lo Monaco