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Ilva di Taranto tra promesse e sogni infranti

Per capire al meglio la drammatica situazione dell’Ilva di Taranto basterebbe ascoltare i tarantini con le loro voci rauche, corrose dalla polvere che vola dalle ciminiere del colosso siderurgico.

Dieci anni in cui si è creduto a tutto e tutti, dove ogni politicante ha promesso qualcosa ad ogni elezione che fosse nazionale, regionale o comunale. Anni di parole che si sono perse nel vento come le polveri mefitiche che attanagliano il quartiere Tamburi, dove i balconi e i piedi dei bambini che osano giocare fuori diventano neri.

Eppure, nell’estate del 2012 la speranza sembrò poggiare la sua mano sulla città di Taranto quando i Riva vennero arrestati e gli impianti messi sotto sequestro. C’era un giudice a Taranto che mise in chiaro una cosa: la città era nera di polvere, il cielo aveva perso il blu sostituito dal grigio delle nubi e la gente si ammalava di più che nel resto della Puglia. Si parlò anche di danno sanitario e a tutti sembrava la volta buona.

Arriva Accerol Mittal, i Riva rimangono in carcere e lo Stato lascia il campo da gioco. Cambiano anche i nomi di quelli che vennero definiti con ardita enfasi i “capitani coraggiosi”: Bruno Ferrante, Enrico Bondi, Piero Gnudi, Lucia Morselli. Cambiano anche i governi: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte con la Lega e Conte senza Lega e adesso è il turno dei “migliori” ma niente pare mutare nella terra dei trulli.

Promesse

Poi arrivano le dichiarazioni: “Se vinciamo chiudiamo il mostro” (Di Battista); “Abbiamo vinto ma non possiamo farlo (Luigi Di Maio).

Inizia anche un processo: “Disastro Ambientale” ma non si è ancora arrivati alle richieste di condanna. Il costo di tutto questo? 23 miliardi di Pil stando ad un calcolo del Sole 24 Ore, ammortizzatori sociali compresi. Si è cominciato con una fabbrica che emetteva veleno e ventimila operai che rischiavano il posto di lavoro. Dieci anni dopo c’è sempre una fabbrica che avvelena e molti lavoratori che hanno perso l’occupazione oppure hanno lasciato la città.

Ilva, l’intervento del sindaco

Adesso c’è l’ordinanza di Melucci, il sindaco di Taranto, che chiude l’area a caldo dell’Ilva e la cosa che deve far riflettere è che la notizia sia passata in sordina come se non interessasse più a nessuno. Arcelor ha impugnato l’ordinanza al Tar sostenendo con l’appoggio dell’Ispra che gli odori e le emissioni che hanno portato alla chiusura non erano attribuibili a loro. Il Tar ha dato ragione al comune dando 60 giorni di tempo per spegnere tutto.

L’azienda ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato spiegando che “la fermata dell’area a caldo comporterebbe in ogni caso un totale blocco della produzione dello stabilimento, la cui produzione, a norma di legge, è invece assolutamente necessaria a mantenere e salvaguardare l’unico impianto sul territorio nazionale a ‘ciclo integrato’ per la produzione di acciaio”.

Improvvisamente però arrivano le notizie “green”, perché il governo dei migliori e la mole di denaro che si ritroverà tra le mani, non può perdere l’occasione di lanciare altro fumo negli occhi degli abitanti di Taranto. Queste notizie devono fare il conto con il disincanto di una città che per troppo tempo è stata abusata saccheggiata dalla politica e dai suoi rappresentanti che hanno visto l’Ilva come un palcoscenico dove promettere tutto e il contrario di tutto. Il tutto, come sempre, sulla pelle degli ultimi.

Sebastiano Lo Monaco

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