Il test nucleare della Corea del Nord tra dubbi e minacce
La scorsa notte, la Corea del Nord ha testato con successo un ordigno miniaturizzato all’idrogeno; a darne la notizia, con i consueti toni enfatici, è stata la televisione di Stato. Poche ore prima, la Us Geological Survey e le autorità sudcoreane avevano registrato un sisma di magnitudo 5.1 con epicentro a 30 miglia da Kilju, nel nordest del Paese, dove si trova il poligono usato per i test nucleari.
Immediate le proteste degli Stati Uniti, Sud Corea e Giappone, a cui si sono unite quelle di Francia e Inghilterra. Dopo l’annuncio dell’esplosione, è stato immediatamente convocato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu per una riunione a porte chiuse.
Al di là della propaganda consueta del regime nordcoreano, pare si sia trattato del test fallito di una possibile bomba all’idrogeno: la potenza registrata dalla traccia sismica, pari a circa 6 kilotoni, non è infatti compatibile con una bomba H, di potere dirompente infinitamente superiore.
Con tutta probabilità i nordcoreani hanno compiuto un test riuscito a metà: un’esplosione di fissione nucleare (una bomba atomica per intenderci) non è riuscita ad innescare la reazione di fusione nucleare (la bomba all’idrogeno).
A comprova di tale deduzione, c’è la dichiarazione delle autorità cinesi che confermano i livelli normali di radioattività in prossimità del sito in cui si è svolto il test. Una bomba H avrebbe scatenato una massa enorme di radiazioni, solo in parte trattenute da un esperimento sotterraneo e comunque chiaramente rilevabili.
S’è dunque verosimilmente trattato del fallimento di un tentativo, che il regime di Pyongyang ha voluto far passare per un successo; resta comunque l’attestazione del possesso di bombe di potenza devastante in mano a un Paese che dal 2012 dispone di vettori missilistici idonei al loro trasporto per colpire a lunghe distanze.
La Corea del Nord ha puntato da tempo tutte le sue scarse risorse sullo sviluppo di un programma nucleare militare, come assicurazione sulla sua sopravvivenza e come arma di ricatto con i vicini.
A dire il vero, è stato l’allora presidente sudcoreano Park Chung-hee, preoccupato dall’affidabilità (ritenuta scarsa e interessata) della protezione offerta da Washington, a lanciare per primo un programma nucleare militare, abbandonato nel ’75 per le pesanti pressioni della Casa Bianca. Gli Usa consideravano la “bomba” in mano a Seul una iattura perché sostenevano che avrebbe destabilizzato la regione, ma soprattutto perché l’avrebbe resa assai meno malleabile agli interessi di Washington.
Dal canto suo Pyongyang ha proseguito nel suo programma, annunciando già nel 2003 la fabbricazione del primo ordigno ed effettuando nel 2006 il primo test, bissato nel 2009 da un’esplosione assai più potente.
La Corea del Nord è uno Stato povero, completamente isolato dal mondo da un regime durissimo quanto dispotico, che si regge ancora solo grazie all’appoggio della Cina. Pechino s’è giovata della continua minaccia costituita da Pyongyang per Corea del Sud e Giappone, ma da tempo si mostra insofferente per l’inaffidabilità di un “alleato” sempre più impresentabile e riottoso a qualsiasi controllo.
La vera assicurazione del regime nordcoreano è la presenza di una popolazione alla fame; come più volte ufficialmente paventato ufficialmente da Seul e da altre capitali della regione, il crollo del regime rovescerebbe i 25 milioni di abitanti fra le braccia dei vicini, Corea del Sud e Cina in testa, che non hanno alcuna intenzione di farsene carico.
Resta comunque il fatto di un arsenale nucleare in mano ad una leadership come quella di Kim Jong-un, un paranoico ragazzotto con delirio di onnipotenza; questa si una reale minaccia alla sicurezza dei Paesi dell’area e non solo.
C’è da riflettere sul doppiopesismo della comunità internazionale: s’è ferocemente scagliata contro il programma nucleare civile iraniano, tentando di colpire e destabilizzare in tutti i modi un grande Paese, senza che niente potesse dimostrarne la pericolosità, se non l’isterica e pregiudiziale ostilità di Israele e Arabia Saudita. Al contempo, s’è limitata a condanne di facciata per il peggior regime repressivo, che però fa comodo come eterna minaccia che giustifichi la presenza Usa nell’area e la sua sistematica ingerenza.
Così va il mondo secondo Tel Aviv, Washington e Riyadh.