Il sogno delle “Piccole Patrie” fa tremare l’Europa delle banche
Nuovo ordine mondiale, vuol dire un mondo, tra le tante altre aberranti cose, in cui sparisce lo Stato nazione per come oggi inteso e quasi universalmente riconosciuto; lo Stato, di qualsiasi forma esso sia, insieme all’ideologia ed alla religione, è un’entità scomoda per un sistema fatto dal dominio di grandi multinazionali e dall’annullamento di ogni sorta di tutela del welfare.
Spesso, infatti, ci si chiede: ma i politici comprendono che tutta questa crisi di cui sono parzialmente responsabili, rischia di far crollare le istituzioni?
La risposta, non del tutto errata, sta nel fatto che chi fa parte del palazzo, non ha cognizione di quello che accade fuori e se aggiungiamo anche una mediocrità intellettuale inquietante della nostra classe dirigente, allora in effetti si potrebbe ipotizzare che lo scollamento tra società civile e mondo politico sia dovuta a mancanza di lungimiranza.
Ma è solo questo? E’ da un po’ di tempo che avanza un sospetto: e se c’è una strategia precisa per scaricare le colpe tutte sullo Stato? Chi controlla lo Stato, potrebbe avere interesse a distruggerlo dall’interno?
Il sospetto nasce dal fatto che troppe sono le coincidenze per credere che la classe politica stia pagando solo sue negligenze; non sarebbe quindi un delitto pensare che far odiare lo Stato dai cittadini, sia una precisa strategia studiata a tavolino.
Il clima nelle capitali europee è teso, da Roma ad Atene, da Madrid a Parigi, c’è un’atmosfera di assedio latente ai vari parlamenti, che aumenterà nei prossimi mesi con l’avanzare della crisi; quello che ci si chiede è: se i governi sanno che con l’aumentare della povertà si rischia la destabilizzazione, come mai non corrono ai ripari e lasciano invece che tutto diventi sempre più nero?
Si sa come il primo passo per togliere gli Stati nazionali dalla scena, è la costituzione di squallide ed improponibili entità sovranazionali; l’Unione Europea, è un esempio lampante di unione di Stati che a lungo andare perdono sempre più sovranità ed i cui governi dicono apertamente che la perdita di tale sovranità è un bene, visto che con l’unione ci si guadagna.
Sembra che la strategia della crisi economica, oltre ad avvantaggiare la speculazione della finanza internazionale, sia stata concepita anche per mettere in sofferenza le credenziali dello Stato, per presentare ai cittadini una realtà in cui l’istituzione statale perda qualsiasi forma di onorabilità e, contestualmente, far passare come ancora di salvezza esclusivamente le formazioni extrastatali: in proporzione, è lo stesso ragionamento fatto da un imprenditore che, piazzato un prestanome a capo di un’azienda che viene appositamente messa in crisi, si presenta ai lavoratori o ai creditori come l’unico magnate in grado di salvare la situazione, guadagnando quindi la benevolenza generale.
Ma l’Europa non è un’aziendina e questo giochetto ha in realtà avuto un effetto collaterale non previsto, che rischia di far fallire lo scellerato progetto di colonizzazione del vecchio continente, ossia la rinascita dei regionalismi locali e la voglia di autodeterminazione di popoli che fino ad oggi, più o meno pacificamente, hanno convissuto dentro entità statali più grandi.
La stessa crescita di Alba Dorata in Grecia, è il frutto di una certa voglia di rivalsa di un piccolo Stato, come quello greco, nei confronti dei “giganti” che hanno portato Atene alla fame; ma il Paese europeo prossimo, di questo passo, alla frantumazione è la Spagna: tra catalani, baschi e galiziani, sono molte le entità regionali che pressano dai tempi di Franco per avere l’indipendenza e con la crisi di credibilità della Corona e delle istituzioni madrilene, Barcellona, Bilbao e Vigo sembrano voler fare sul serio.
In Catalogna, nei mesi scorsi, in alcuni comuni si sono ammainate le bandiere spagnole ed europee e nei municipi si sono formate comunità “libere” ed autogestite; così come, è andato in fibrillazione il mondo del calcio, “mes que un club” da queste parti, con i dirigenti del Barcellona preoccupati di chiede alla Uefa che, in caso di indipendenza catalana, la squadra blaugrana potesse comunque continuare a giocare nel campionato spagnolo, per non perdere il confronto diretto con il Real Madrid.
Ma se in Spagna rivendicazioni del genere non sono nuove, è in Italia il Paese dove crescono a vista d’occhio i movimenti indipendentisti in diverse regioni: in Veneto, cinque comuni hanno già approvato nel loro statuto la “legge referendaria” con la quale si vuol arrivare ad un referendum indipendentista nel giro di pochi mesi e contemporaneamente avanza anche il partito “Indipendenza veneta”, presente anche in alcuni consigli comunali di città venete importanti.
In Lombardia si è avviata una petizione popolare per chiedere l’avvio del processo pacifico di indipendenza e, si badi bene, i promotori si dichiarano ben distanti dal progetto considerato “velleitario” della grande “Padania” di Umberto Bossi; in Friuli, una recente legge regionale ha imposto il bilinguismo italiano/friulano nelle province di Udine e Pordenone; in Sardegna, avanza la “Liga Sarda”, giunta anche negli scranni del consiglio regionale, il quale ha approvato qualche mese fa una mozione che impegna la giunta di Cagliari a prendere in esame l’avvio di un percorso indipendentista, oltre che, anche qui, all’istituzione del sardo come lingua ufficiale alternativa all’italiano.
In Sicilia, anche se, oltre al Mis, non esistono al momento organizzazioni radicate sul territorio, avanza comunque un senso di forte appartenenza all’isola; se si assiste ad una manifestazione sportiva in qualsiasi città siciliana, dagli spalti è completamente sparito il tricolore, a favore dello sventolio di bandiere giallorosse con la Trinacria; per rimanere in ambito sportivo, il dominatore del giro d’Italia, Vincenzo Nibali, messinese doc, sul podio alla fine di ogni tappa festeggia con la bandiera siciliana. In tutta Italia in generale, la perdita di credibilità della classe politica, sta spingendo l’opinione pubblica a sentirsi sempre più radicata con il proprio territorio di origine ed appartenenza e sempre meno invece con uno stato, i cui cardini fondamentali della stessa unità, sono stati da tempo messi in discussione ed in cui le bandiere tricolori esposte nei vari comuni iniziano a diventare un peso.
Nel resto d’Europa, in Gran Bretagna il prossimo anno si terrà il referendum sull’indipendenza della Scozia, i cui sondaggi al momento accreditano un certo vantaggio a favore del distacco da Londra; in Belgio, anche le Fiandre spingono per una scissione de Bruxelles, così come cresce l’indipendentismo bretone e corso in Francia.
Il sempre maggior radicamento della popolazione sul territorio, è un “effetto non voluto” della nomenclatura europea, la quale sperava che con la crisi si potesse spazzare via ogni residuo di identità nazionale e si ritrova invece con tanti popoli che rivendicano l’autodeterminazione.
Potrebbe essere questo lo scenario futuro europeo: una serie di tanti Stati, piccoli sì, ma più radicati con i popoli e quindi sempre più espressione di una forte identità nazionale, da cui poter far ripartire il corso democratico interrotto con l’avvento della dittatura della finanza internazionale.
Del resto, tale tendenza non sembra essere soltanto europea: giusto qualche giorno fa, abbiamo raccontato l’indipendenza della piccola Repubblica aborigena di Murrawarri in Australia, che potrebbe spingere tanti altri piccoli territori ad autogestirsi ed a rivendicare il distacco dallo Stato di appartenenza.
Dunque, la volontà popolare sembra orientata, complessivamente, verso una maggiore identificazione con la propria terra, in risposta alle mire di un sistema senza Stati teorizzato e portato avanti dagli architetti del nuovo ordine mondiale. La cultura, la storia, la lingua, sono elementi che identificano un individuo con l’angolo di pianeta in cui vive o in cui è nato: ogni tentativo di alienazione da tali elementi, subirà una reazione del tutto opposta da parte dell’individuo stesso.