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Sanità in crisi: non dovevamo fare investimenti?

Dallo scoppio della pandemia, ci è stato ripetuto incessantemente quanto è importante la sanità, quanto sono importanti gli ospedali, quanto è importante avere medici ed infermieri che, ricordiamolo, sono stati definiti, con la solita retorica italiana “eroi” ma che, come tutti gli eroi, vengono presto dimenticati quando le emergenze cessano e si torna alla vita di prima. La vita di prima, ormai possiamo dirlo, è tornata in modo dirompente. La crisi Covid-19, insomma, è ormai alle spalle. Sarà vero?

Se è vero che il virus gira ormai lentamente, quello che ci ha insegnato la pandemia è che la sanità è veramente importante ma, come diceva Gramsci, “la storia insegna ma non ha scolari”. Infatti, quello che emerge dopo tanta fanfara è che gli ospedali sono messi peggio di prima e le notizie di questi giorni non devono sorprendere.

Pronto soccorso nuovamente affollati e non a causa della pandemia. Se durante le varie ondate la gente evitava di recarsi nelle sale di aspetto, adesso sono riprese le scene da “corte dei miracoli” all’interno degli ospedali italiani.
Flotte di barelle accatastate in quelle macellerie umane che sono le astanterie, veri e propri lazzaretti che non si vedevano nemmeno negli ospedali da campo della Prima Guerra Mondiale. Promiscuità, luci sempre accese, ore di attese per ricevere assistenza. Il motivo? Mancano medici e infermieri. Ma non si era detto che niente sarebbe stato come prima?

Cardarelli di Napoli, San Camillo di Roma ma c’è anche il nord all’avanguardia ed evoluto che ha dei problemi non indifferenti. Un esempio? Nel Veneto di Zaia gli organici di 18 pronto soccorso su 26 sono affidati a servizi esterni. Esternalizzazione, si chiama in gergo tecnico, che vuol dire appalti alle coop. Inoltre, si sta pensando di affidare malati non in codice rosso a gruppi di medici privati. E nella città “più europea d’Italia”, Milano? Mancano 9.500 infermieri.

Il problema sanità? Il collo d’oca delle università

Il problema sarebbe di semplice soluzione ed è quello di aumentare “l’uscita” di medici e di infermieri dalle università. Se ne producono troppo pochi e quei pochi, una volta assaggiato come si lavora nel pubblico, fuggono via nel privato. Il motivo? Orari più umani e stipendi migliori, ma in questo modo il buco nero della sanità non fa altro che ingrandirsi. A pagarne lo scotto sono soprattutto i malati, non solo quelli dei pronto soccorso ma anche quelli delle corsie. Reparti con 20/25 pazienti con solo due/tre infermieri, quando va bene. Allora si lavora male, si corre il rischio di sbagliare con tutto quello che ne consegue.

Il ministro della Salute sempre più precaria, Roberto Speranza, se n’è uscito così: “Abbiamo raddoppiato le disponibilità nelle scuole di specializzazioni, aumentato i posti disponibili per i corsi di laurea. Tra un po’ saremo in perfetta sincronia con le esigenze e gli obiettivi della sanità italiana”.

Sembrerebbe una nota rassicurante ma leggendola meglio si nota che è scritta peggio delle postille a piè pagina nelle assicurazioni. Quel “un po’” che può dire tutto e nulla, che può essere oggi ma anche domani, un anno come anche cinque. In tutto questo attendere il giorno che non arriva mai, una domanda: che ne facciamo dei malati?

di Sebastiano Lo Monaco

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