Il nuovo imperialismo che schiavizza l’Africa
L’Africa ha avuto da sempre la sfortuna d’essere terra di colonia; Francia e Inghilterra vi hanno fondato Imperi enormi, ma tutti i Paesi europei si sono ritagliata la propria fetta. Dopo la II^ Guerra Mondiale venne l’ondata della decolonizzazione; fu un processo quasi sempre sanguinoso, sempre traumatico, ma in breve quell’anacronismo sparì lasciando un’eredità avvelenata, fatta di Stati ritagliati arbitrariamente, classi dirigenti e infrastrutture di base spessissimo inesistenti, guerre tribali, miseria e fame. Furono poche le entità che si salvarono da questo destino, ma tutte pagarono uno scotto.
Tuttavia, il Colonialismo inteso come sfruttamento era tutt’altro che finito, e, partiti i funzionari dell’amministrazione coloniale, furono i manager delle grandi aziende a rimanere (in genere con l’appoggio più o meno discreto delle Nazioni d’appartenenza), per sfruttare sempre più intensamente le materie prime del continente, con la complicità di governanti avidi quanto corrotti e gruppi di potere prezzolati.
Con il crollo della potenza sovietica, però, molta dell’attenzione degli attori europei si rivolse ad Est, attirata da opportunità più vicine e da nuovi giochi di potere. Rimase un vuoto, o, quanto meno, rimasero a disposizione immense opportunità di business e investimento. Ma il vuoto non esiste, in natura come nella geopolitica. La Cina faceva i primi passi sulla grande scena internazionale fuori dalla sua area tradizionale, badando, allora, a tenere un profilo basso pur di procurarsi materie prime, occasioni d’investimento, mercati per le sue merci a basso costo (e a quei tempi assolutamente scadenti), e vide nell’Africa un’occasione ideale.
Da allora moltissime cose sono cambiate, il Dragone è divenuto un colosso zeppo di capitali, affamato di materie prime e assai meno disposto a un atteggiamento discreto; per capirci, nel 2013 l’interscambio fra l’Africa e la Cina ha toccato i 210 mld di $, superando Europa e Usa, e, dai programmi in corso, conta di raggiungere i 400 mld entro il 2020. Laggiù ci sono già circa 2mila aziende cinesi, con quasi due milioni di imprenditori, manager, tecnici e operai; gli investimenti fioccano (sono oltre 112 mld dal 2005) e sono in ascesa verticale.
L’anno scorso, il presidente Xi Jinping ha compiuto un tour per le capitali africane, distribuendo linee di credito per 20 mld; da poco s’è concluso un altro viaggio del primo ministro Li Keqiang, che fra Etiopia, Nigeria, Angola e Kenya ha elargito altri 10 mld. E sono tutti “senza clausole politiche” all’occidentale, come hanno tenuto a dire sorridendo i leader cinesi, che tradotto significa: senza chiedere in cambio aperture democratiche a regimi che spesso di democratico non hanno nulla, o minore corruzione. Per capirci, quelle sono poco più che mazzette concordate; i lavori in infrastrutture che ne deriveranno (come di prassi in passato), saranno rigorosamente affidati a ditte cinesi che provvederanno a far affluire colossali “stecche” ai potenti dei vari Stati. In cambio la Cina avrà mano libera per sfruttare nella maniera più indecente risorse naturali e mano d’opera locale senza che nessuno s’intrometta, anzi, con la pronta collaborazione delle autorità.
Il Governatore della Banca di Nigeria, Lamido Sanusi, l’anno scorso, ha scritto al Financial Times che in sostanza non c’era differenza fra la politica cinese e quella coloniale britannica, era solo un nuovo imperialismo che puntava allo sfruttamento delle risorse nazionali; ma la sua è una voce isolata e oggi è ovviamente in disgrazia nei confronti della classe dirigente del suo Paese. Così le iniziative si moltiplicano all’infinito, sovvenzionando regimi e cricche di potere corrotte e liberticide in cambio di petrolio, carbone, rame e ferro che da soli contribuiscono al 64% delle importazioni cinesi; per sovrappiù, l’Africa è letteralmente invasa di prodotti cinesi di basso prezzo e infima qualità, che nessuno si prende la pena di controllare.
Ovviamente sorgono gravi motivi di scontro, come in Ghana, dove i cinesi gestiscono decine di miniere d’oro, trattando i lavoratori letteralmente come schiavi; per di più hanno permesso l’attività di una pletora di cercatori illegali (sempre cinesi) che sono autentici gangster. La sollevazione popolare li ha costretti alla fuga, ma Li Keqiang ha commentato seraficamente che si tratta di problemi isolati e che “la Cina non ripercorrerà la strada del colonialismo”.
Ma per quelle sventurate popolazioni c’è un altro pericolo: il rallentamento dell’economia cinese a cui quegli Stati (meglio: quelle cricche di potere) si sono legati mani e piedi. Pechino è finalmente costretta a limitare l’eccesso di produzione delle sue fabbriche e a tentare di aumentare i consumi interni per non innescare un colossale flop (che per inciso sarebbe planetario). Il contraccolpo di questo cambiamento sarà drammatico per diversi Paesi africani, ma per quelle disgraziate popolazioni, certo non per le bande di potere che di soldi ne hanno avuti a mai finire.
Tuttavia la presa sull’Africa rimarrà; è troppo funzionale agli interessi personali di chi governa, è troppo radicato il sistema di sfruttamento di un imperialismo ancora più cinico e privo di scrupoli di quello europeo, che ha in buona parte soppiantato.