Primo Piano

Il lavoro (vero) non è assistenzialismo né clientelismo

di Salvo Ardizzone

È antica storia amara di questo stato patrigno usare il lavoro come assistenzialismo, troppo spesso a fini clientelari, non sapendo creare quello vero. Lo spunto per ribadirlo è dato dalla notizia che saranno assunti per due anni circa 12mila precari storici, ex lavoratori socialmente utili attualmente impiegati nelle scuole e che da aprile sarebbero rimasti disoccupati a seguito di uno dei vari “tagli”; una grana che Renzi non voleva trovarsi fra i piedi proprio ora che promette sfracelli.

Erano impiegati nella pulizia delle scuole e ora saranno utilizzati nelle piccole manutenzioni; ovviamente, visto che non hanno competenze, dovranno essere formati professionalmente con un costo di circa 300 ml per i due anni, che è circa l’importo del taglio a seguito del quale sarebbero stati mandati a spasso. Ha un senso? Ha un senso mentre Cottarelli (il Commissario alla spending review) stima in almeno 85mila gli esuberi nella Pubblica Amministrazione? Ma soprattutto ha un senso fingere di dar lavoro alla gente, tenendola sospesa per anni e anni tra la disoccupazione e un lavoro in genere di fame, che sa tanto di clientelismo?

Quello d’inventarsi assunzioni e ruoli per tamponare la disoccupazione che non si sa affrontare è un male antico d’uno stato inetto, incapace di creare lavoro vero, che concede sussidi sotto forma d’una finzione di lavoro che da un momento all’altro può levare.

Cominciò nel 1987, quando l’allora Ministro del Lavoro Formica, e il Segretario della Cisl Marini, pensarono che fosse logico (e assai più facile) alleviare le piaghe sociali inventandosi impieghi, invece che risolvere le storture che impedivano al lavoro di nascere. Allora non c’era l’Euro e i vincoli con l’Europa, e sembrava naturale coprire i disavanzi stampando Bot, e chi se ne importava di fabbricare un debito via via divenuto colossale, da scaricare sulle generazioni che sarebbero venute. Di ruoli se ne inventarono tanti e il bacino assistenziale divenne un mare; soprattutto al Sud si ovviò così all’incapacità di classi dirigenti che, in questo modo, si trovarono in mano uno strumento clientelare perfetto: da un canto veniva dato un simulacro di lavoro (che era un sussidio bello e buono), dall’altro chi lo riceveva rimaneva sotto ricatto perché non era definitivo.

Nel 2001, secondo l’Inps erano già divenuti 125mila, impiegati nei ruoli più disparati: in Calabria c’erano 11mila forestali (a fronte del record insuperato degli incendi); in Sicilia 28mila e così via. Ma di utile quei lavori avevano troppo spesso ben poco: in Campania, durante l’emergenza rifiuti, ne furono assunti 2.361! in 34 lavoravano in un call center dove arrivava una telefonata a testa a settimana! Sette anni fa, il Comune di Palermo assunse 110 autisti senza patente! (Che c’è di strano? L’avrebbero presa dopo). Di esempi così se ne potrebbero riempire libri, e c’è chi l’ha fatto.

Rappresentano il colossale fallimento di una intera classe dirigente e direi di quella società che, direttamente o indirettamente, l’ha espressa e in qualche modo accettata. Intendiamoci: i sussidi vanno benissimo quando si tratta di tamponare situazioni di disagio, emergenze, sono interventi doverosi in una società civile; ma questo è altro, anche solo pensare che possano strutturalmente e a tempo indefinito costituire la risposta alla domanda di lavoro è folle. Di più, è distruzione di ricchezza che ricade e ricadrà su tutti.

La classe dirigente (non è solo politica, ci sono dentro in troppi) che percorre una simile via per lei infinitamente più comoda, è doppiamente colpevole: fallisce nel suo ruolo primario d’assicurare le condizioni perché sorga lavoro; umilia e mantiene “sotto scopa” chi quel sussidio riceve. Ma colpevole è pure la società che, in un modo o nell’altro, s’adatta e s’adagia in tale situazione senza ribellarsi, pensando che, tutto sommato, il poco sia meglio del niente perché niente è alla fine quello che raccoglierà.

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