Il Giappone al centro della strategia globale Usa
di Salvo Ardizzone
L’evolversi della situazione ha posto il Giappone al centro della strategia globale Usa, al pari della Russia e più della Germania, secondo solo alla Cina, riconosciuto competitor globale. Per Washington, Tokio è al contempo partner fondamentale per contenere Pechino e potenziale rivale per l’egemonia della cruciale area Asia-Pacifico.
La visita di Obama al margine del G7 del maggio scorso, ha sancito la straordinaria rilevanza conferita al Giappone; il messaggio insistente della Casa Bianca, talmente forte da ignorare le rimostranze di Seoul, è l’esortazione ad abbandonare la posizione pacifista adottata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e riassunta dall’articolo IX della sua costituzione, per assumere un atteggiamento interventista nell’ambito di una politica di contenimento della Cina.
Il Giappone è la terza potenza economica del mondo e dispone della più potente Marina asiatica; nei disegni Usa, insieme ad Australia, Vietnam e Corea del Sud, dovrebbe creare un equilibrio di potere – instabile – che contrasti l’egemonia cinese. Proprio quel perenne stato di crisi permetterebbe a Washington di fare l’ago della bilancia, permettendole di mantenere un’area di influenza con il minimo sforzo.
A spingere il Governo nipponico sulla strada di un deciso interventismo ci sono più ordini di ragioni: il Giappone importa via mare le risorse necessarie alla sua economia e per la stessa via esporta i suoi prodotti, ma la gran parte di quelle merci viaggiano su acque che la Cina rivendica come proprie.
Per Tokio, la sicurezza di quelle rotte è vitale; dalla fine della Seconda Guerra Mondiale essa è stata garantita dalla Us Navy ma adesso le cose sono cambiate. Washington ha lasciato intendere chiaramente che non si impegnerebbe in un confronto con la Cina per garantire gli interessi altrui. Meno che mai per un’economia che potrebbe farle concorrenza nell’area.
Di qui per Tokio la via di un riarmo e di un maggiore impegno a tutela del proprio Sistema Paese diviene praticamente obbligata, assecondando di fatto i programmi di Washington.
Ma spingere il Giappone a tornare una talassocrazia (di cui ha tutte le potenzialità) può divenire un errore pericoloso per gli interessi Usa: una volta che esso abbia mutato radicalmente la sua postura strategica, potenziato il suo già ragguardevole strumento militare (come del resto sta già facendo) e rafforzato una serie di alleanze con i principali attori locali, cementate dalla minaccia concreta del crescente espansionismo cinese, potrebbe tramutare quelle relazioni in legami politico-economici, soppiantando le pretese di egemonia a Stelle e Strisce. Non gli mancano certo le potenzialità economiche e men che meno le capacità tecnologiche.
Il gioco americano di perpetuare il proprio dominio scaricando il peso del contenimento del suo principale competitor sugli altri è dunque un considerevole rischio, la cui potenzialità è peraltro ben presente nell’establishment Usa, che ha sempre considerato il Giappone un potenziale antagonista.
È per questo che a marzo gli Stati Uniti hanno ottenuto dalle Filippine il permesso di tornare in cinque basi: lo scopo non è solo di contrapporsi alle mosse cinesi nel Mar Giallo, ma di dissuadere una possibile futura intraprendenza del Giappone.
Per i cinici giochi di Washington, il massimo sarebbe se Tokio si accollasse il peso della contrapposizione verso Pechino, ma rimanesse un fedele alleato/suddito. Visti gli sviluppi, una volta spinto a tornare in pista e considerate le caratteristiche del suo Sistema Paese, è assai probabile che il Sol Levante voglia ricominciare a giocare in proprio.