Medio OrientePrimo Piano

Il dilemma di Obama

di Salvo Ardizzone

Ci piaccia o no, da molto tempo l’Atlantico ha ceduto il passo al Pacifico, ora esso, e ciò che gli ruota intorno, è il fulcro del mondo. La casa Bianca lo sa molto bene, e ha cercato di risolvere la questione tramite il Tpp (Trans Pacific Patnership), un grande accordo commerciale fra una dozzina di Paesi delle due sponde di quell’Oceano; un’area di libero scambio capace di sovvertire gli equilibri del globo e costituire un irresistibile polo d’attrazione per tutte le Nazioni che gravitano sul Pacifico.

Per spingere il progetto Obama ha fatto il viaggio concluso di recente, toccando Giappone, Corea del Sud, Malaysia e Filippine. Ma, oltre alle reticenze di chi è già un big del commercio estero (leggi Giappone, che non ha inteso recedere dalle proprie posizioni), è sbattuto su un problema colossale: la Cina, ovvero, come mantenere i propri rapporti con Pechino, e tutelare i propri alleati del Pacifico dalle mire del suo crescente espansionismo. Al di là dei discorsi sul commercio, che gli stavano a cuore, ad ogni tappa s’è visto riproporre la stessa domanda: Washington avrebbe onorato i trattati di difesa con gli alleati dinanzi alle minacce della Cina?

Per ricordare brevemente quanto abbiamo trattato a lungo in altri articoli, da molto tempo il Dragone ha intrapreso una politica imperialista d’espansione della propria sfera d’interessi a spese dei paesi dell’area; i punti d’attrito si sono moltiplicati con una miriade di sempre nuove rivendicazioni: le Paracel strappate al Vietnam nel ’74 e poi le Spratley nell’88, che suscitano anche le proteste di Manila; lo scoglio di Socotra con la Corea del Sud; le Dongsha con Taiwan; le isole Natuna con l’Indonesia e infine, l’attrito di gran lunga più rilevante, le Senkaku col Giappone. Dietro quelle isole, spesso semplici scogli persi nel mare, ci sono giacimenti offshore di idrocarburi, controllo di rotte commerciali, zone di pesca, e c’è soprattutto quella strategia del “filo di perle” che prevede una progressiva acquisizione di basi e punti d’appoggio per il dominio dei mari su cui viaggiano le materie prime di cui la Cina è sempre più affamata.

Il livello della tensione è salito da quando Shinzo Abe è Primo Ministro a Tokyo: oltre a diversi gesti simbolici (come l’omaggio al santuario di Yasukuni, dove insieme alle salme di milioni di caduti ci sono pure quelle di generali dichiarati criminali di guerra), ha detto chiaro che non cederà sulla sovranità di quelle isole, e ai crescenti investimenti cinesi in armamenti ha risposto con un imponente piano di riarmo. La crisi è tutt’altro che di facciata, e oltre al fatto che Abe e il Presidente cinese Xi Jinping non si parlano, il generale Luo Yuan, presidente della commissione che determina la strategia militare di Pechino, ha dichiarato che “le probabilità di una guerra fra Cina e Giappone aumentano”. Ma oltre a questo, è tutto un succedersi di provocazioni nei confronti di tutti i Paesi dell’area.

Obama, su suggerimento di Hillary Clinton, ha inaugurato la strategia “Pivot to Asia”, che ha visto un massiccio rischiaramento di forze nel Pacifico dopo il disimpegno da Iraq e Afganistan ; Pechino l’ha interpretato come un atto ostile, una sfida, ed ha reagito intensificando la politica aggressiva nel Mar della Cina e aumentando l’imbarazzo di Washington. E oltre quella, ci sono altre spine per l’Amministrazione Usa: la Corea del Nord sta preparando un nuovo esperimento nucleare e nuove provocazioni verso il Sud che potrebbero avere esiti incontrollabili, solo i cinesi, tradizionali protettori di Pyongyang, possono bloccarla, ma Pechino, pur essendo furiosa per l’irresponsabilità della leadership di quel Paese, non è intenzionata a buttarla a mare: la destabilizzazione totale della Corea del Nord o, peggio, la riunificazione sotto Seul è vista con orrore. Inoltre, Seul, che ricorda ancora la durezza dell’occupazione giapponese, è profondamente offesa dal revanscismo di Shinzo Abe.

Così a Obama non resta che prodursi in un difficile equilibrismo: da un canto rassicurare gli alleati che Washington onorerà i trattati di difesa, e, in occasione del viaggio, ha firmato un accordo di cooperazione militare che permette a Us Navy e Usaf di tornare nelle basi filippine, dopo che oltre vent’anni fa erano state costrette a lasciarle;  dall’altro la Cina, che gli Usa non intendono mettere in atto alcuna politica di contenimento. Difficile essere presi sul serio sostenendo cose opposte, tanto che Chuck Hagel, capo del Pentagono, è stato costretto a dichiarare che: “Pechino non deve prendere come modello l’annessione russa della Crimea”, e far “filtrare” i piani di rischiaramento nel Pacifico, compresa la riattivazione della vecchia base di Tinian, nella Marianne, quella da cui decollò Enola Gay per il volo su Hiroshima.

A parte questa lugubre notazione, resta la domanda che è tutta politica: può Obama rischiare realmente il rapporto con la Cina per un pugno di scogli spersi nel Mar cinese? Il Primo Ministro di Pechino Li Keqiang ha risposto con un sorriso alla domanda sulla possibilità d’una grave crisi con Washington: “..la storia ci ha insegnato che bisogna rispettarsi, ma soprattutto ci sono 520 mld di $ di interscambio: questi sono interessi comuni che ci rendono complementari.” Una risposta tutt’altro che rassicurante alle orecchie degli alleati degli Usa nel Pacifico. Una deterrenza è efficace, e mantiene un equilibrio, se la minaccia è ritenuta seria e la reazione certa e automatica, in caso contrario…

Nel frattempo basterebbe un piccolo incidente cino-giapponese presso le Senkaku per fare crollare le borse di tutto il mondo e i leader dell’area non rassicurano certo: a Davos Shinzo Abe ha dichiarato che la situazione in Asia è simile a quella dell’Europa nel 1914; Benigno Aquino (Presidente filippino) ha paragonato la crisi del Mar Cinese a quella di Monaco del 1938, con i Sudeti concessi a Hitler; Pechino e Seul continuano a ricordare la feroce aggressione del Giappone imperiale; e potremmo andare avanti con le citazioni.

Obama non ha risolto il suo dilemma, semmai aggravato dal viaggio, e forse spera che la forza degli eventi non lo costringa mai a una scelta, ma mentre era in volo per il ritorno, l’agenzia Xinhua da Pechino commentava:” Le quattro tappe in Asia di Obama fanno parte di un piano per ingabbiare la Cina”.

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