Il dilemma del gigante indiano
L’India è a un bivio: ha necessità di cose che la politica tradizionale non comprende, o, per lo meno, d’una ricetta che prenda ingredienti trasversali e li mescoli senza preconcetti fuori dai rigidi schemi tradizionali. Oggi è esigenza comune in tutto il mondo, ma più che mai necessaria in un Paese immenso, dove diseguaglianze e contrasti sono esasperati, estremizzati, più che mai stridenti.
Negli anni 2000 l’India ha cavalcato l’onda della globalizzazione, immaginando che tutto potesse andare sempre bene, che la crescita del Paese fosse automatica, quasi dovuta, alzando le aspettative d’una classe media emergente che l’anno prossimo, secondo la società di consulenza McKinsey, dovrebbe superare i 260 milioni.
Ma come in tutto il mondo sono arrivati i problemi: legato ai propri schematismi, e a strutture di potere negli anni sempre più sclerotiche e voraci, il Partito del Congresso, da sempre guidato dalla dinastia Gandhi, non ha aperto a sufficienza l’economia, ha preferito l’intervento della mano pubblica dominata sempre dalle stesse persone e sempre più corrotta e inefficiente; ha puntato sui sussidi e sulle elargizioni. Almeno le ultime misure sacrosante, ma, di fatto, rifiutando la liberalizzazione dei servizi e dell’industria, ha lasciato l’economia preda di consorterie inette, paternalistiche e disoneste, bloccando nella sostanza il Paese; la crescita è sotto il 5%, per noi la luna, certo, ma la potenzialità è tranquillamente a due cifre e tutta l’India ne risente pesantemente, divorata da burocrazia e mazzette.
Di qui l’ondata enorme di consensi per il Bjp, il Partito Popolare Indù di Narendra Modi, più che probabile vincitore delle elezioni che si sono aperte il 7 aprile e si concludono il 12 maggio (secondo la legge elettorale indiana, i circa 815 milioni di elettori votano stato per stato, con un calendario sfalsato). Modi, per rastrellare consensi, ha puntato molto sul tema del nazionalismo, che purtroppo suscita sempre facili entusiasmi nei momenti di crisi, e mette in ombra le cose più importanti; ad esempio i legami con il mondo del business e gli apprezzamenti pressoché incondizionati che ne riceve.
Per dirla con Amartya Sen, filosofo, economista e premio Nobel, la maggiore preoccupazione è che l’ondata di populismo nazionalista e il consenso che la circonda, si metta al servizio del mondo degli affari senza più alcun bilanciamento; “tutti siamo a favore del business” quando produce ricchezza, “ma nessuno vuole essere dominato dal business” dichiara. La crescita economica è importante, ma presa in sé non significa nulla se dovesse essere appannaggio solo di pochi e non affrontasse gli squilibri e le arretratezze sociali, soprattutto nel campo della salute e dell’istruzione.
Ubriacare le folle con slogan, eccitando le divisioni religiose ed agitando la bandiera del nazionalismo per far scordare miseria, servizi inesistenti e diseguaglianze è storia antica e arcinota; se questo dovesse servire a coprire politiche ultraliberiste appannaggio di pochi gruppi, costituirebbe l’ennesimo capolavoro di chi, per costruirsi il proprio piedistallo dinanzi a oceaniche adunate adoranti, le condanna cinicamente alla miseria e all’arretratezza.
Questo è il bivio a cui si trova l’India: perseguire le politiche del Congresso la incatenerebbe a vecchie cricche che, elargendo sussidi, ingrassano mantenendo il proprio potere; affidarsi al “nuovo” Modi, le abbandonerebbe a “sogni” scintillanti di grandezza, ma da guardare soltanto, perché riservati a pochi, pochissimi, per tutti gli altri la miseria antica.
La vera scelta sarebbe scardinare questi schemi vecchi, schemi fatti per interessi di consorteria o di pochi: aiutare le moltitudini indiane a divenire middle class, migliorare l’efficienza d’uno Stato divenuto un pachiderma che mangia le risorse, intervenire sulle diseguaglianze e aiutare gli ultimi, tagliare le unghie di chi fa del massimo utile l’unica bussola. Potremmo continuare a lungo ma in fondo non è che come rotta sia così originale, ci ricorda qualcosa d’assai più vicino.