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I terroristi dell’Isis una minaccia per l’economia irachena e non solo

di Cristina Amoroso

L’Iraq, il Paese mediorientale dalle enormi potenzialità, erede delle più antiche civiltà del mondo, continua a vivere gli orrori di guerre e morte in un crescendo di atrocità che pare non abbiano mai fine, chiuso nella spirale di una lunga serie di scontri dove quello attuale è solo un prolungamento di conflitti storici della regione, alimentati da anni di privazioni, ingiustizie e sanzioni occidentali, che da sole hanno causato quasi mezzo milione di morti tra i bambini.
Lacerato da interessi disparati vede la comunità sciita, con la sua maggioranza politica e demografica, opposta alla comunità sunnita, divisa tra coloro che non accettano la dominazione sciita e coloro, come i cosiddetti gruppi tribali del “risveglio” che si sentono oppressi anche se hanno partecipato agli sforzi anti-terrorismo del governo dal 2008; infine la comunità curda che ha goduto de facto dell’indipendenza per quasi mezzo decennio.

Il Paese, comunque, era già frammentato prima dell’assalto condotto da parte dello Stato Islamico d’Iraq e Siria (Isis). Ciò è estremamente spiacevole ed assurdo date le enormi potenzialità della nazione irachena.
L’Iraq è considerato il Paese più importante nell’ Opec e rappresenterà il 60 per cento della crescita della produzione dell’Opec fino al 2019, con un aumento di 1,28 milioni di barili al giorno.
A medio termine, le recenti previsioni della International Energy Agency (Iea) hanno indicato che la produzione avrebbe raggiunto 3,87 milioni di barili al giorno nel 2015.

L’acuirsi della crisi irachena, che ormai sembra scivolare nella guerra civile, con l’avanzata verso Baghdad dell’Isis, non ha avuto un grande impatto sui mercati. Il brent, ad esempio, è salito di appena cinque dollari. Sembra strano dal momento che l‘Iraq è il secondo maggior produttore di petrolio con una produzione di circa 3,3 milioni di barili al giorno, che – sulla base dei prezzi del petrolio registrati dopo la presa di Mosul – si tradurrebbe in un fatturato fino a 450 milioni di dollari al giorno.
Ricordiamo che questa ricchezza è stato uno dei principali motivi per l’invasione guidata dagli Usa, l’evento che ha precipitato in una lunga calamità sociale ed economica in Iraq.

Da allora, l’Iraq è in uno stato imbarazzante e dicotomico: mentre i proventi del petrolio sono cresciuti sensibilmente, le relazioni tra i gruppi etnici e religiosi, che avrebbero dovuto trarre vantaggio dalla ricchezza, sono deteriorate, come nota il giornalista Hassan Chakrani.
Se si pensa che tra il 2010 e il 2013, i ricavi del governo iracheno dalla produzione di petrolio sono quasi raddoppiati di 100 miliardi di dollari, se solo questo incremento fosse stato distribuito equamente tra gli iracheni, ogni famiglia avrebbe dovuto avere 10mila dollari. Ma cosi non è stato.

Ci sarebbe stato il potenziale per lanciare a dir poco una rinascita socio-economica tra tutte le comunità dell’Iraq, tra cui sciiti, sunniti e cristiani, nella zona compresa tra Mosul, Rutba, e Bassora; avrebbe poturo ad esempio, contribuire a ricostruire le infrastrutture per il settore elettrico che è stato distrutto durante l’invasione. Invece, e nonostante le decine di miliardi gettati, il risultato è stato un ritorno agli stessi livelli di alimentazione che esistevano sotto Saddam.

Se i terroristi riuscissero ad occupare Baghdad – anche se è improbabile che la città di sette milioni di abitanti cada in mano all’Isis – taglierebbero al governo centrale i ricavi della produzione di petrolio erodendone ulteriormente la capacità di governare, e porterebbero gravi ripercussioni sulle forniture di petrolio e sulla logistica.
Sarebbe un disastro per la regione irachena e per il mondo. Il calo di un terzo della produzione dell’Iraq farebbe sfumare la capacità produttiva inutilizzata dell’Opec, e costringerebbe nazioni sviluppate a sfruttare le loro riserve strategiche.

Il conflitto attuale potrebbe facilmente portare alla disintegrazione del Paese e ad approfondire le lacune tra le sue comunità. E’ certamente un conflitto civile che assomiglia a molti conflitti riscontrati nella regione, dove le economie sono state distrutte come pure i sogni di stabilità e di prosperità sono andati rapidamente in frantumi. Ma “l’era Isis” può risultare differente. Gruppi islamici radicali hanno iniziato a costruire il loro “emirato” su basi che possono essere difficili da annullare. Questo è fonte di grande preoccupazione per i cinque milioni di famiglie dell’Iraq, che temono per il futuro dei loro figli in un Paese in cui i proventi del petrolio da soli sono per la somma di mezzo miliardo di dollari al giorno, con un’economia del valore di 210 miliardi dollari – un Paese che viene lacerato davanti ai loro occhi, mentre la sua ricchezza viene data alle fiamme.

Il salasso in Iraq è tornato, e il problema si è spostato sul come raggiungere la stabilità economica in condizioni di guerra, in un Paese con oltre 30 milioni di persone. Gli analisti parlano di confini geografici de facto tra sciiti e le regioni a maggioranza sunnita. E’ pur vero che queste linee di demarcazione non incideranno negativamente sulla produzione nelle aree controllate dal governo di Baghdad, finora l’avanzata dell’Isis non ha ridotto la produzione e questo perché sono stati sabotati solo gli oleodotti che collegano Kirkuk al porto turco di Ceyhan. I princiali pozzi sono dislocati nel sud del Paese, dove l’ondata terroristica non è ancora arrivata.

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