Qatar e il potere dei petroldollari
C’è un solo modo per un piccolo Stato, con alle spalle una storia priva di blasone e dotato di un modesto esercito, di ritagliarsi uno spazio di protagonismo nel complesso scacchiere geopolitico. Ovvero, investire denaro a fiumi. Per farlo, ovviamente, c’è bisogno di una disponibilità economica gigantesca, di dimensioni inversamente proporzionali ai pochi chilometri dei propri confini. Confini, tuttavia, entro i quali, nel caso del Qatar, si nascondono sotto terra quei giacimenti di gas e petrolio che costituiscono l’origine di tanta ricchezza da investire all’estero. Sono i cosiddetti petrodollari, infatti, che l’emiro di questo Paese del Golfo Persico sta brandendo come un’arma per conquistarsi quella fama internazionale finora soltanto invidiata agli altri.
Non è più ormai un mistero che ingenti quantità di denaro provenienti dal Qatar stiano rappresentando un considerevole sostegno finanziario per le economie indebolite dalla recessione. I petroldollari qatarioti, originariamente destinati soltanto verso Paesi islamici, hanno iniziato a confluire anche nella direzione del Vecchio Continente. È notizia non più recente il robusto investimento che l’emiro del Qatar ha deciso di effettuare in Francia. Dapprima furono il calcio (Paris-Saint-Germain), gruppi strategici, emittenti tv e alberghi di lusso gli oggetti dello shopping francese di Hamad ben Khalifa Al-Thani.
Negli ultimi tempi, il suo impegno finanziario ha subìto una svolta, sostituendosi perfino al Governo nel risanamento delle degradate periferie delle metropoli di Parigi, Marsiglia, Lione. L’emiro del minuscolo Stato qatariota finanzierà un piano di 100 miliardi di euro destinati alle banlieues. La scelta del governo francese è stata però accompagnata da roventi polemiche; in molti hanno accusato l’Eliseo di “svendere” parte dei propri centri urbani a un Paese straniero, appaltandogli il piano di risanamento, quello che andrebbe considerato non un prodotto da mettere sul mercato ma un “obbligo governativo”.
Qatar e ingerenze straniere
Le polemiche sono poi divampate quando l’ex capo della DST (Direzione della sorveglianza del territorio) francese, Yves Bonnet, ha chiamato in causa proprio il Qatar quale finanziatore di gruppi radicali che stanno proliferando nel Paese. Bonnet ha pronunciato parole inequivocabili a margine di una retata avvenuta nei confronti di alcuni membri di questi gruppi. Egli ha dichiarato che tali ambienti “pongono il problema del traffico di droga”, ma anche che “esiste una questione relativa ai soldi versati verso di loro da Paesi salafiti”. Sollecitato dall’intervistatore, Bonnet è stato ancora più chiaro: “Non c’è il coraggio di parlare dell’Arabia Saudita o del Qatar, ma forse queste brave persone dovrebbero smettere di alimentare con i loro fondi un numero di azioni preoccupanti. Sarebbe bene aprire un dossier sul Qatar, perché là c’è un vero problema. E non mi interessano i risultati del Paris-Saint-Germain”.
L’inusuale beneficienza qatariota svela dunque il suo vero obiettivo, che non è certo umanitario, che nemmeno si limita alla propensione affaristica o alla volontà di accreditarsi il consenso – altrimenti irrealizzabile, data la natura non propriamente democratica dell’Emirato del Qatar – da parte degli europei. L’obiettivo di Doha è quello di dare una svolta alla sua storia; sfruttando le proprie risorse e le opportunità fornite dal turbo-capitalismo vuole trasformarsi in protagonista della scena internazionale. Protagonismo che passa attraverso la destabilizzazione di potenze più grandi, più prestigiose e anche, inevitabilmente, più articolate del minuscolo Qatar. Così si spiegano i finanziamenti elargiti ai gruppi salafiti che sono in azione in Siria contro l’esercito regolare.
Il monito di Bonnet testimonia che questa riprovevole prassi qatariota di finanziare gruppi che professano e, allorquando possono, attuano azioni terroristiche ha valicato i confini del Medio Oriente.
di Federico Cenci