I nuovi barbari da Marcuse al Financial Times
“Ora i barbari non si stanno semplicemente ammassando alle porte di Roma. Sono dentro le mura della città”, a queste parole del principale giornale economico-finanziario del Regno Unito, riferite a Lega e Cinque Stelle, Salvini risponde: “Il Financial Times dice che siamo barbari: io dico meglio barbari che servi”.
I “modern barbarians” a cui Roma apre le porte “per il governo meno convenzionale e inesperto per governare una democrazia dell’Europa occidentale dopo il trattato di Roma dell’Unione Europea del 1957” sono Cinque Stelle, un movimento anti-establishment e Lega, un partito anti-immigrazione, che considerano il moderno sistema politico d’Italia un fallimento e la governance dell’Ue carica di difetti, come riporta il quotidiano britannico di corta memoria.
In altri tempi, infatti, altri avevano parlato di barbarians. Quando gli studenti italiani occuparono l’Università di Roma nel marzo 1968, il punto forte era uno striscione con tre M: Marx, Mao e Marcuse. Nel 1968 Marcuse aveva 70 anni ed era un insegnante alla San Diego State University – un marxista che identificò il rigido sistema sovietico per quello che era, ma allo stesso tempo identificò l’Occidente come la Mecca della “non-libertà”.
Il suo “Eros e civiltà”, pubblicato a Boston nel 1955, era una celebrazione del piacere fisico pieno, di sensi di colpa e avvertiva di “falsi padri, falsi insegnanti e falsi eroi”. Marcuse stava già avvertendo che la lotta di classe non poteva essere analizzata come ai tempi di Marx – perché con l’avvento della società dei consumi sono impiegati tutti i tipi di tecniche di seduzione per riconciliare il lavoratore con il sistema.
Marcuse ha anche analizzato ciò che sarebbe diventato di conoscenza comune negli anni ’60: la proliferazione di informazioni troncate, la distruzione della vera opposizione politica, lo spettacolo di un presunto dialogo di opinioni opposte, il trionfo delle ideologie anti-intellettuali (un preludio ai neocon), l’inquadramento commerciale dell’esistenza e la produzione di ciò che sarebbe diventato “un uomo unidimensionale”.
In un modo o nell’altro, nel bene e nel male, aldilà di ogni dibattito denigratorio o apologetico o rievocativo, siamo tutti figli del 1968, di quel Sessantotto, la cui quintessenza è stata identificata dal filosofo francese Michel Onfray in una rivolta contro la civiltà ebraico-cristiana. Era una ribellione, sostiene Onfray, contro ogni forma di autorità, e uno stile di vita codificato sotto San Paolo: odio per questo mondo, venerazione dell’aldilà, detestamento della carne, licenziamento delle donne, rifiuto del desiderio, interdizione del piacere e sessualità, celebrazione della sofferenza, culto del peccato, insegnamento della sottomissione, religione del lavoro, legittimità della schiavitù. Tutto ciò richiama l’imperatore romano Costantino, la cui conversione nel IV secolo d.C. fu la pietra di fondazione dell’egemonia giudeo-cristiana.
Il 1968 ha proposto esattamente il contrario: l’attenzione al qui e ora, la passione per la carne, l’amore per le donne, una filosofia del desiderio, la ricerca del piacere, un gusto per la vita vissuta al massimo, la liberazione sessuale, il rifiuto della sofferenza, l’abolizione del peccato, la trasgressione di ogni interdizione, il rifiuto della sottomissione, il rifiuto della cieca obbedienza, il godimento del tempo libero senza costrizioni, l’abolizione della schiavitù. Era quello che il filosofo Herbert Marcuse aveva definito “il grande rifiuto”.
In senso gramsciano, il vecchio ordine – basato sulla tradizione e sull’indiscussa autorità – è crollato. Nessuna meraviglia che una grande quantità di libertà date per scontate dai millennial nel XXI secolo esistano a partire dal maggio 1968. Ma per quanto gli studenti lo desiderassero, la rivoluzione – trasmessa o meno – non accadde nel 1968. Quella fu un’eruzione vulcanica contro un sistema stagnante e soffocante, una rivolta culturale intrisa di sesso, musica, moda, estetica, certo non una trama sorosiana della Cia come nelle rivoluzioni colorate del XXI secolo.
Marcuse era più che preveggente quando espose come la rivoluzione non sarebbe venuta dal proletariato ma dai “nuovi barbari” – “substrato di paria e stranieri, altre razze, altri colori, classi sfruttate e perseguitate, disoccupati e poveri che non possono essere impiegati”. Una roadmap rivoluzionaria per la fine degli anni 2010?
Un giorno una giovane armata globale che rifiuta di essere messa a tacere, i “nuovi barbari” di Marcuse sorgeranno, consapevoli che è impossibile desiderare la pace, perché la pace desidera “ non l’alleggerimento ma il silenzio della miseria”, come Albert Camus scrisse ne “Il Ribelle”.
di Cristina Amoroso