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Gaza: il blocco israeliano strangola l’economia palestinese

di Manuela Comito

Sabato 25 aprile Muhammad Hamad, vice presidente di Metal and Engineering Industries Union, ha puntato il dito contro Israele che sta impedendo l’ingresso nella Striscia di Gaza dell’85% dei materiali e delle attrezzature necessari alla ricostruzione dell’enclave costiera, quasi totalmente distrutta durante l’offensiva “Protective Edge” tra luglio e agosto 2014. Hamad ha dichiarato che l’assedio imposto dal governo di Tel Aviv agli abitanti della Striscia dal 2006 ha danneggiato il settore metallurgico e che le pesanti perdite economiche derivanti dal blocco sono ora ulteriormente aggravate dalla quasi totale distruzione dei tunnel di sopravvivenza, attraverso i quali i Palestinesi riuscivano a far passare molti tipi di ferro e far funzionare 1250 stabilimenti del settore.

In seguito alla chiusura degli stabilimenti 6500 operai hanno perso il lavoro e migliaia di altri lavoratori sono stati indirettamente colpiti dalla conseguente crisi economica. Hamad ha inoltre sottolineato che le autorità israeliane consentono solo l’ingresso di determinati metalli, come alcuni tipi di zinco e banda stagnata, che sono impiegati per alcuni progetti di aziende internazionali, ma inadeguati alle necessità dei gazawi. La conseguenza più diretta di questi divieti è un aumento spropositato dei prezzi dei metalli ‘vietati’. Secondo Hamad, le motivazioni che spingono Israele a vietare l’ingresso nella Striscia dei materiali necessari alla ricostruzione non hanno nulla a che vedere con la sicurezza, i pretesti con i quali le autorità di Tel Aviv negano i permessi sono inconsistenti; il vero obiettivo delle forze di occupazione è di minare le già fragili basi dell’economia palestinese.

Non è difficile condividere questo punto di vista. In fondo è per millantati ‘motivi di sicurezza’ che Israele sradica ulivi secolari, devasta intere coltivazioni, distrugge allevamenti, spara ai pescatori sulle loro modeste imbarcazioni. E mentre Israele distrugge, devasta e opprime, per la sua “sicurezza” s’intende, l’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione) lancia l’ennesimo appello sulla necessità di avviare al più presto la ricostruzione e sulle drammatiche conseguenze di ulteriori ritardi: “Non una sola casa è stata ricostruita. Ad oggi, 9.161 case di rifugiati sono ancora completamente distrutte, 5.066 hanno subito gravi danni, 4.085 danni maggiori e 124.782 piccoli danni. L’Agenzia ha ricevuto un finanziamento che permette la ricostruzione di sole 200 delle 9.161 case completamente distrutte”, ha dichiarato recentemente Chris Gunness, portavoce dell’Unrwa.

E’ lecito chiedersi se le autorità di Tel Aviv abbiano messo in conto che agevolare la ricostruzione della Striscia di Gaza devastata rientri nei loro imprescindibili canoni di sicurezza o se ritengano piuttosto che costringere migliaia di persone a vivere tra le macerie di quelle che prima erano le loro abitazioni, le loro scuole, le loro moschee e i loro ospedali possa essere motivo di soddisfazione per i gazawi e un ulteriore contributo all’avvio del processo di pace (secondo l’accezione che negli ultimi 70 anni ha dato Israele al termine “pace”).

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