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Guerra all’Isil? È ora di rimettere le mani sulla Libia

La decisione ormai è presa e la scusa è già bella e pronta: a breve partirà una massiccia operazione militare in Libia, con tanto di “boots on the grounds”. Sarà una missione di “peace-enforcing”, d’imposizione della “pace”, cioè una missione di guerra vera e propria, ovviamente sotto l’egida dell’Onu che, con tutta probabilità come in passato, appalterà questo lavoro sporco alla Nato.

La motivazione, al di là dello sciocchezzaio assordante dei media che straparlano di Isil e “califfato”, è in quel petrolio e gas divenuti troppo preziosi con tante crisi in giro (vedi Ucraina tutt’altro che pacificata) perché possano essere lasciati sotto la sabbia.

Diciamo questo per fare chiarezza nella cortina di disinformazione che circonda il caso Libia; un problema creato da un Occidente avido quanto ipocrita; lasciato incancrenire da chi, dopo esser stato tanto pronto a sganciar bombe, non avendo ottenuto immediati dividendi, se ne è disinteressato; aggravato dalle potenze regionali, che hanno trovato comodo combattervi le loro guerre per procura; ora, divenuto irrisolvibile, col consenso (e l’interesse) di tutti, avviato a una sanguinosa “normalizzazione” sotto gli stivali dei soldati e i cingoli dei carri.

Il dramma libico s’inquadra in quello più grande delle cosiddette “Primavere”: un misto di ingerenze esterne volte a rinnovare la presa su Nazioni e sulle loro ricchezze, impedendo che le autentiche spinte popolari prendessero vie autonome. Ora, in Tunisia ed Egitto il cerchio s’è già chiuso con la restaurazione dei vecchi blocchi di potere e la distruzione o l’emarginazione delle opposizioni; per la Libia è stato un caso a parte ancora aperto.

Quando gli aerei della coalizione e le armi ed il denaro del Golfo permisero alle bande di rivoltosi di eliminare Gheddafi, il Paese prese a sprofondare nel caos: nessuno di quelli che avevano contribuito a realizzare quel disastro (Francia e Inghilterra in testa) fece qualcosa per riparare al danno gestendo la costruzione (perché di questo si trattava) di uno Stato. Così, l’assenza d’un serio impegno politico ed economico d’una comunità internazionale, pronta a gettar bombe ma non ad assumersi le responsabilità dei propri atti, ha lasciato le gracilissime istituzioni libiche in balia delle milizie mai disarmate, determinandone il completo collasso.

Non è stato un evento improvviso: fino agli inizi del 2013 lo scenario attuale era assai probabile ma non ancora scritto; il fatto è che dal 2011, dopo l’abbandono di Francia e Inghilterra, che si son rese conto che le cose erano tutt’altro che semplici; l’inconsistenza dell’azione italiana, che pure fra idrocarburi, commesse per le aziende e la piaga dell’immigrazione clandestina, di interessi ne aveva assai più degli altri; la solita inconcludenza dell’Onu; diverse potenze regionali hanno esportato in Libia le loro contrapposizioni, facendone un terreno di scontro.

Semplificando al massimo per non annoiarvi, si sono andati coagulando due schieramenti: da una parte le milizie più o meno vicine alla Fratellanza Musulmana unite a quelle di Misurata, che si ritengono le vere depositarie della rivoluzione e si riconoscono nel Governo ora insediato a Tripoli, sono sostenute da Qatar, Turchia e Sudan; dall’altra i rimasugli del vecchio Esercito, le milizie di Zintan, i federalisti delle Cirenaica, parte delle tribù Tabù del sud ed altre milizie raggruppate dal generale Haftar (un vecchio arnese protetto per anni dalla Cia), che proclamano di voler ricostruire il Paese e si rifanno al Governo insediato fra Tobruk e al-Bayda, sono sostenute apertamente da Egitto, Emirati ed Arabia Saudita, con dietro Francia e Inghilterra che scalpitano per  rientrate in gioco e l’appoggio degli Stati Uniti.

Fuori da questi schieramenti, ma all’occorrenza alleate della Fratellanza contro il comune nemico Haftar, c’è una galassia di movimenti qaedisti. In questo caos fatto d’assenza totale di istituzioni, violenza sempre più diffusa e mancanza d’un qualsiasi riferimento politico, le formazioni qaediste si sono sviluppate rapidamente ed altre vi si sono infiltrate perché respinte dai Francesi dal Mali e dal Ciad.

In Libia, Ansar al-Sharia esiste ormai da anni: s’è radicata nei pressi di Derna e s’è infiltrata nella Cirenaica; intrattiene rapporti stretti con le organizzazioni consorelle del Maghreb e del Sahel e ad oggi conta su circa 5mila miliziani ben armati e organizzati che, insieme a quelli di altre formazioni, sono riuniti in un potente gruppo “ombrello” (Consiglio dei Rivoluzionari della Shura di Bengasi) per resistere all’attacco di Haftar.

Ma ad esser chiari, la matrice vera di questi gruppi è criminale; attraverso il controllo del territorio controllano tutti i traffici che vi passano: le armi predate dai depositi di Gheddafi; la droga che viaggia per la cosiddetta “autostrada 10”, un canale che attraversa il Sahel lungo il 10° parallelo e piega fino alle coste del Mediterraneo per arrivare in Europa; la tratta di esseri umani (che ci riguarda assai da vicino) e, negli ultimi anni, il fiorentissimo contrabbando di petrolio dai pozzi del deserto.

Fino a qualche tempo fa era al-Qaeda il marchio che dava più prestigio, e per questo ricercato dalle bande di tagliagole; ora è il “brend” dell’Isil ad essere assai più attraente, per questo, anche grazie a continue scissioni fra quelle bande unite solo dall’interesse, sono circa in 2mila ad aver scelto le “bandiere nere”, insediandosi a Derna ed irradiandosi per il Paese: come si vede, la loro forza è a tutt’oggi risibile rispetto a quella delle altre milizie (che si conta anche a decine di migliaia), con cui peraltro non hanno alcuna collaborazione.

E qui s’arriva al cuore del discorso: la mediazione dell’inviato dell’Onu, Bernardino Leon, ha mostrato tutta la sua inconcludenza sia per la debolezza con cui è stata condotta, sia perché la situazione è talmente degenerata che non esistono più interlocutori, sia perché in realtà non interessava a nessuno che avesse successo. Gli stessi Governi, a Tripoli e a Tobruk, sono semplici fantocci senza alcun controllo sulle milizie e ancor meno sul territorio. Nel frattempo, gli scontri fra le due fazioni si sono moltiplicati per il possesso dei campi di petrolio e di gas, dei terminal e delle infrastrutture (ormai abbandonate dalle Major tranne l’Eni) e di città vitali come Bengasi.

Il disegno che è andato maturando è quello di un’azione militare sotto la solita foglia di fico ipocrita dell’Onu, che appoggi l’ectoplasma di Governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale. Ma in assenza di interlocuzione con l’altra parte (che in realtà praticamente non esiste), si tratta di una missione di guerra, anzi, d’occupazione bell’e buona e occorre una scusa da dare in pasto alle opinioni pubbliche e fornisca una motivazione “ufficiale”. E di questi tempi, quale migliore della solita minaccia del “terrorismo”?

Ed ecco che quasi dal nulla, mentre in molti punti della Libia si combatte aspramente e a nessuno importa, spuntano le “bandiere nere” dell’Isil. Dapprima occupano il campo petrolifero di Mabrouk, abbandonato da Total e dalla compagnia libica di Stato, poi eccole a Sirte.

A muoversi non è stata una forza irresistibile, tutt’altro: 35 fra pick-up e mezzi leggeri con poco più d’un centinaio di miliziani, in massima parte bande locali di predoni che si sono appiccicate le insegne del “califfato” per l’occasione, sostenuti da alcuni “consiglieri” giunti da Derna. Sirte era praticamente indifesa perché non era zona di guerra, con poche pattuglie del Lybian Shield (una milizia ombrello che parteggia per il Governo di Tripoli) che si sono dileguate prima del loro arrivo.

Da qui è partita una campagna mediatica ossessiva quanto isterica, che riempie giornali e Tv con un’epocale minaccia del “califfato” a Italia ed Europa; l’Ambasciata italiana (l’unica ad essere ancora aperta) è stata chiusa ed è stato dato l’ordine di rimpatrio per tutti gli italiani; i politici si sperticano in dichiarazioni per un intervento armato, compresi i Ministri di Esteri e Difesa, mentre è sceso un velo totale sugli altri sviluppi della situazione.

In poche parole, con la scusa dell’Isil, vedi caso improvvisamente materializzatosi in poche centinaia di predoni che se ne sono appiccicate le insegne, Egitto, Golfo, Francia, Inghilterra e compagnia, attaccheranno le milizie che si rifanno alla Fratellanza per mettere le mani sul petrolio e gas, col pieno beneplacito di Tobruk che ne avrà le briciole. E l’Italia, questa volta, preme per essere in testa all’operazione e rivendicarne i frutti, come è chiaro dalla visita di Renzi al Cairo e il suo pieno appoggio ad al-Sisi.

È evidente che le lezioni di Iraq e Afghanistan non hanno insegnato nulla: sulla carta non ci sarà storia per gli avversari, ma solo sulla carta perché sarà un pantano sanguinoso in cui non esiste parte e controparte ma solo bande affamate di denaro, da cui sarà difficilissimo uscire.

Il Popolo libico, dopo anni di sofferenze, distruzioni e sangue causati dall’avidità di potenze vicine e lontane, nel migliore dei casi (ma proprio nel migliore) tornerà sotto il servaggio e l’assoggettamento, stavolta di stranieri venuti per sfruttare le sue ricchezze. E anche in Libia il cerchio delle “Primavere” sarà chiuso.

di Salvo Ardizzone

       

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