Gli equilibri dei petrostati al summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo
di Salvo Ardizzone
Nei giorni scorsi si è tenuto a Gedda, in Arabia Saudita, il vertice annuale dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc); scopo della riunione trovare il modo convincere le rispettive popolazioni che i sostanziosi tagli ai bilanci ed ai sussidi che si preparano siano invece piani di sviluppo.
Da tempo l’Arabia Saudita è in grave difficoltà: da un canto, le spese senza controllo della sterminata famiglia reale, i megacontratti per ammassare armamenti, le enormi elargizioni per assicurarsi appoggi internazionali, i fiumi di denaro inghiottiti da guerre per procura (vedi Siria ed Iraq) o dirette come in Yemen, stanno prosciugando le casse dello Stato ed intaccando le riserve in modo preoccupante; dall’altro, la guerra del petrolio dichiarata per schiantare i propri avversari (produttori di shale oil nordamericani, Russia e soprattutto Iran) hanno praticamente dimezzato gli introiti di uno Stato che per il 73% vive di greggio.
Se questo vale per l’Arabia Saudita, non è diverso per gli altri del Gcc (Bahrain, Yemen, Qatar, Emirati Arabi ed Oman), anch’essi petrostati che dipendono dagli idrocarburi e che con preoccupazione crescente vedono le politiche di Riyadh falcidiare i propri incassi.
Da sempre in tutte quelle parodie di Stati, una ristretta casta superprivilegiata ha comprato il consenso della gente con una pioggia di regalie e sussidi; il crollo verticale delle entrate rende impossibile continuare a farlo e mette a rischio la stabilità di quei regimi dinanzi allo scontento popolare.
Il vertice di Gedda, tenutosi sotto la regia di Muhammad bin-Sultan, il figlio trentenne di re Salman che ha ormai soppiantato il padre regnando di fatto sul Paese, intendeva creare uno stretto coordinamento (leggi: controllo dell’Arabia Saudita) sui piani di sviluppo (leggi: austerità e tagli) degli Stati membri del Gcc.
Lo sforzo per presentare come misure per la crescita quelli che sono programmi di drastico ridimensionamento della spesa, soprattutto quella relativa agli aiuti alla popolazione, è evidente; per accreditare questa lettura addomesticata è stato mobilitato tutto il circo mediatico sovvenzionato dai petrodollari sauditi, a cominciare da Al-Hayat e al-Sharq al-Awsat, i due principali giornali panarabi editi nella Londra della City.
Il centro del nuovo corso saudita, che Riyadh intende imporre agli altri Paesi del Gcc, è quella “Visione 2030” con cui Muhammad bin-Sultan vagheggia di rendere l’Arabia Saudita indipendente dagli introiti del greggio attraverso un piano di “riforme” che di reale hanno solo la carta su cui è tracciato il documento che le descrive.
Gli altri clan della famiglia reale, e quelli delle altre monarchie degli altri Stati del Gcc, sono però seriamente preoccupati per la perdita degli smisurati privilegi di cui hanno sin qui goduto e che hanno permesso loro di governare impunemente proprio grazie ai sussidi ed alle prebende che si intendono tagliare.
È assai improbabile che il consenso da sempre comprato possa permanere, come pure è altrettanto irrealistico pensare che le tensioni sociali, già largamente presenti fra vaste minoranze emarginate, non esplodano con i drastici tagli programmati.
In poche parole, la “transizione economica” caldeggiata dal rampante rampollo reale Muhammad, pone tutti i presupposti per destabilizzare i già precari equilibri dei petrostati del Golfo e mandarne in pezzi i regimi.