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Gelo al summit fra Obama e i Paesi del golfo

di Salvo Ardizzone

Il 14 maggio, a Camp David, s’è tenuto un summit fra i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e Obama. Il Presidente Usa doveva rassicurare le petromonarchie, irate per la crescente divaricazione delle posizioni dell’Amministrazione americana da quelle di Riyadh e dei suoi satelliti nella gestione delle tante crisi mediorientali.

In nome dell’antico “rapporto speciale” con il Golfo, e con la copertura assoluta delle lobby petrolifere ed ebraiche che sostanzialmente controllano il Congresso, l’irritazione degli “alleati” arabi è sempre più evidente, ed è sfociata nella decisione di disertare il vertice presa dal re saudita Salman e dagli Emiri di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, che hanno inviato rappresentanti: un autentico schiaffo per Obama; solo Kuwait e Qatar erano presenti al massimo livello, ma la freddezza era palpabile.

Al di là delle parole, i petromonarchi si sono presentati al summit esigendo garanzie concrete (cioè scritte) su tutti i dossier aperti nella regione, questione sul nucleare iraniano in testa, e poi a seguire in Siria, Libia, Iraq e Yemen; in poche parole, pretendendo l’incondizionato appoggio americano nelle crisi che hanno aperto per i loro interessi.

Obama è stato costretto a sottolineare che l’accordo con Teheran non è stato ancora definito e ha dovuto offrire ampie rassicurazioni militari, con l’impegno a difendere con ogni mezzo gli “alleati” del Golfo da qualunque minaccia. Inoltre, è trapelato che è intenzione dell’Amministrazione Usa riconoscere a quei petrostati lo status di “importante alleato non Nato”.

Il Presidente Usa, che è stato impegnato l’intera giornata nei colloqui, ha detto che non ha sottoposto alla firma alcun documento perché l’accordo non è completo, confermando implicitamente la forte diversità di vedute, ma ha aggiunto che un’intesa complessiva è nell’interesse dei Paesi del Golfo. Ha infatti tentato di tenere il punto sui conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, per i quali, come si legge nella dichiarazione congiunta finale, non c’è soluzione militare, ma solo attraverso strumenti politici e pacifici, nel rispetto della sovranità e non interferenza in altri Stati. Esattamente l’opposto di quanto ostinatamente operato da Riyadh e dai suoi satelliti, che da anni insanguinano la regione con le loro guerre per procura.

Obama, che volentieri si districherebbe dal ginepraio mediorientale per concentrarsi su quelle che considera priorità, prima fra tutte il contenimento della Cina, vi viene inchiodato dal potere delle lobby e da un Congresso che vede Israele la Nazione “sorella” e Teheran un nemico irriducibile. Prova ne sia il voto alla Camera Usa di una legge che consentirà al Congresso di esaminare e, al caso, respingere l’accordo sul nucleare iraniano, dietro cui si vede chiaramente la mano di Tel Aviv.

Per il Presidente americano è sempre più difficile destreggiarsi fra agende così divaricate, che finiscono per risultare contraddittorie e a condannarlo all’impotenza. L’ambiguità è destinata a durare almeno fino al gennaio del 2017, quando s’insedierà il nuovo capo dell’Amministrazione, ma per allora è assai probabile che l’evoluzione della situazione sui vari campi, sempre più rapida, avrà determinato uno scenario che nessuna lobby, centro di potere o montagne di petrodollari potranno più ribaltare.

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