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Dai fatti di Rebibbia agli Icam: la legge “carcera” anche i bambini

La storia di Alice Sebesta, la conosciamo solo a partire dall’epilogo tragico ed è proprio da quel crimine folle, eseguito per rendere “liberi” i suoi due bambini, che possiamo intuire il suo passato e comprendere quanto le apparisse immutabile e torbido il presente.

bambini-carcereQuando Alice, 33 anni, tedesca di origine georgiana, viene fermata dalla polizia il 27 Agosto del 2018, è in auto a Roma insieme a due uomini nigeriani, in direzione Tiburtina. La accompagnano a prendere il treno per tornare a Monaco di Baviera, dice lei stessa agli agenti che li hanno fermati, ma nascosti nel veicolo vengono trovati 10 chilogrammi di marijuana. I due uomini sono presto rimessi in libertà, per Alice invece, pur essendosi proclamata davanti al giudice inconsapevole della presenza di droga nell’auto, si aprono le porte del carcere di Rebibbia.

Alice ha due figli: la piccola Faith di solo 6 mesi e il fratellino Divine di un anno e mezzo. La legge italiana prevede che i bambini di donne detenute possano restare con le madri in carcere fino al compimento del terzo anno di età. In tutto il territorio nazionale, infatti, sono presenti 15 sezioni nido all’interno delle carceri; fino ad oggi, secondo le stime, sono più di 60 i bambini al loro interno. Per quanto l’ambiente dei nidi sia reso più adatto possibile alla loro permanenza, restano ben presenti tutti gli elementi distintivi del sistema carcerario, come le sbarre di ferro alle finestre e le agenti di custodia in divisa. I giorni sono lunghi e tutti uguali all’interno di quelle mura, il presente sembra sospeso e il futuro si allontana. Dentro gli occhi dei suoi bambini, Alice vede un destino segnato, forse pensa che saranno tolti alle sue braccia per darli ai nonni o a chissà chi. Intanto, l’avvocato della donna fa subito ricorso al tribunale del Riesame. Alice potrebbe andare ai domiciliari con i suoi figli in una casa a Napoli. Nessuno intorno a lei intuisce che nella sua testa il tempo si fa stretto, diventa insostenibile, e il riflesso di quelle sbarre negli occhi dei suoi bambini è un’offesa alla loro età. Qualcuno dice che Alice era stata in strutture psichiatriche durante la sua adolescenza. La vita non era mai stata leggera sulle sue spalle, non era mai stata felice nella sua testa, ma quando, ormai donna, nel suo ventre era cresciuta la vita nuova delle sue creature aveva voluto credere in un’esistenza migliore, almeno per loro. Così aveva dato loro la vita. Adesso, però, il filo di errori che l’aveva condotta fino a quel carcere, si allungava ai suoi bambini, passava per le loro piccole mani inconsapevoli e sarebbe finito, un giorno, per avvolgerli e trascinare anche loro in una vita di errori da ereditare e rifare. Fuori, in fondo, c’è un carcere anche peggiore per chi ormai non riesce più a tagliare le maglie di una rete di delinquenza che li ha intrappolati.

Passano pochi mesi e arriva quel maledetto giorno, il 18 Settembre del 2018. Intorno all’ora di pranzo, Alice prende in braccio i suoi due bambini, uno dopo l’altro, li allunga oltre i gradini e li lascia precipitare giù dalla tromba delle scale dal secondo piano. La piccola Faith muore sul colpo. Divine si spegne a distanza di poche ore in ospedale. Dopo la tragedia, è il caos anche negli uffici del carcere e dell’Asl. Si parla di possibile infermità mentale della donna e l’avvocato chiede una perizia psichiatrica per la sua assistita. La direzione del carcere afferma di aver segnalato all’Asl Roma 2 la necessità di una visita psichiatra ad Alice, visita che non viene mai effettuata e che porta ad essere indagata anche la dottoressa in questione. Chi doveva vigilare non lo ha fatto. Chi doveva supportare la donna evidentemente turbata e troppo fragile per la vita del carcere non ha compiuto il proprio dovere. Vengono sospesi i vertici della sezione femminile del carcere. In tutto questo trambusto e rimbalzi di responsabilità, Alice sembra calma e sicura di sé, afferma di aver liberato finalmente i propri figli, non voleva finissero nelle mani della mafia. Intanto, la morte del piccolo Divine può accendere vita e speranza per altre piccole vite grazie alla donazione degli organi, ma bisogna fare presto. Si cerca disperatamente il padre per ottenere il consenso all’espianto. Si chiama Ehis Eigebelelou, 33 anni, nigeriano, arrestato nell’ottobre del 2017 a Macerata per spaccio di stupefacenti insieme ad una banda di spacciatori nigeriani, processato e rimesso in libertà, viene finalmente rintracciato. E’ detenuto in Germania per spaccio di droga. Quando il padre, messo al corrente dell’orribile omicidio dei figli, dà il consenso all’espianto, è la madre a opporsi e a spegnere anche quest’ultima possibilità di nuova vita.

Gli Icam non funzionano e le Case famiglia protette mancano

Quella di Alice è la storia di una donna che sapeva di avere un destino segnato dall’ambiente familiare che circondava lei e i suoi figli. Il suo gesto insegna che il carcere non può essere un luogo esclusivamente di detenzione e di allontanamento dalla società, ma che dovrebbe riformare, nel senso reale della parola, e rieducare il detenuto ad una vita diversa da quell’unica conosciuta, con particolare attenzione alle donne e ai loro figli innocenti. La legge 62 del 2011 prevede che le madri detenute possano prendersi cura dei propri figli (entro il sesto anno di età) in istituti a custodia attenuata o case famiglia protette idonee, a tutela del benessere dei minori. Fin dal 2006 sono stati avviati in Italia, in via sperimentale, gli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), luoghi che dovrebbero avere un ambiente accogliente e più simili ad una casa per evitare ai bambini di vivere l’esperienza del carcere, con sistemi di sicurezza non riconoscibili dai piccoli e agenti in borghese. Ne sono presenti solo cinque in tutta Italia, a Milano, Venezia Giudecca, Torino, Avellino Lauro e Cagliari. Oggi, alcuni di questi istituti possono essere ritenuti un “esperimento fallimentare”, come, ad esempio, l’Icam della Giudecca, che si trova a fare i conti con la mancanza di un adeguato numero di personale e diversi disagi relativi alla struttura stessa dell’istituto. Le case famiglia protette potrebbero essere la soluzione migliore, ma al momento in Italia ne esistono solo due e si trovano a Roma e Milano.bambini-carcere

La “Carta dei figli dei genitori detenuti” è un protocollo d’intesa firmato nel 2014 dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza Vincenzo Spadafora e dalla presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, Lia Sacerdote; essa riconosce il diritto dei bambini alla continuità del legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, il diritto alla genitorialità.

Il gruppo di lavoro Crc (Convention on the Rights of the Child) nell’ultima relazione scrive che “la Legge 62/2011 non è riuscita a eliminare la presenza dei bambini nei nidi all’interno delle carceri, laddove si dovrebbero privilegiare le misure alternative in case famiglia protette e lasciare come estrema soluzione la detenzione presso gli Icam”. Inoltre, già da tempo raccomandava la chiusura dei nidi presso gli istituti penitenziari e di destinare le risorse ad essi previsti agli Enti locali per le case famiglia protette. La legge 62, infatti, impone che la realizzazione delle case famiglia protette non debba comportare alcun costo per lo Stato, ma che siano interamente a carico degli Enti Locali, ciò costituisce un grande ostacolo alla loro effettiva realizzazione.

Dopo mesi dall’omicidio di Rebibbia che ha tristemente riacceso le luci sulla vergognosa questione dei bambini nelle carceri, si attende la riforma della legge, sperando che finalmente abbia come obbiettivo la tutela reale dei diritti di questi piccoli innocenti.

di Anna Luisa Maugeri

 

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