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Eritrea: un Paese ridotto al silenzio tra traffico d’armi e diaspora Tax

di Cristina Amoroso

Il 24 maggio 2013 l’Eritrea ha festeggiato il ventesimo anniversario dell’indipendenza conquistata nel 1993, dopo un conflitto con l’Etiopia durato 30 anni. Da allora è governata con pugno di ferro da  Isayas Afeworki, l’ex guerrigliero che ha guidato gli eritrei nella lotta contro il regime del negus rosso Menghistu Hailè Mariam, trasformandosi gradualmente in uno spietato dittatore. Negata la promulgazione della costituzione, incarcerati i suoi principali oppositori, militarizzato il Paese, repressa ogni forma di dissenso, ha trasformato l’Eritrea in una grande prigione, secondo il rapporto di Amnesty International.

Alle celebrazioni non potranno prendere parte migliaia di prigionieri politici e di coscienza che languono, senza accusa né processo, nelle carceri del Paese: giornalisti, parlamentari, fedeli di credi religiosi non riconosciuti, disertori dalla leva obbligatoria sepolti vivi in carceri segrete, isolati dal mondo esterno e, soprattutto, dalle famiglie. Molti sono morti sotto tortura, di malaria o a causa delle condizioni estreme delle gelide celle sotterranee o dei roventi container di metallo situati in mezzo al deserto.

L’ultima ondata di arresti ha colpito almeno 187 persone (tra cui un ministro e due governatori), finite in centri segreti di detenzione a seguito dei fatti del 21 gennaio di quest’anno, quando 200 soldati occuparono il ministero dell’Informazione e trasmisero un appello per il rilascio di tutti i prigionieri politici e l’attuazione della Costituzione del 1997, mai messa in atto.

Non a caso migliaia di giovani cercano continuamente di scappare per raggiungere Europa, Canada o Stati Uniti, anche per il peso di una leva obbligatoria indistinta per uomini e donne compresi tra i 18 e i 40 anni, che prevede un periodo di sei mesi di addestramento seguito da un anno di servizio “di sviluppo”, cioè di lavoro presso progetti di sviluppo, in realtà estesa indefinitamente per il conflitto con l’Etiopia e le dispute territoriali.

A tutti i numerosi emigrati il governo eritreo impone la Diaspora Tax, un controverso tributo, sui redditi che producono all’estero. Questa imposta è stata introdotta nel 1995 con la legge n. 67 (Diaspora Income Tax Proclamation), ma in realtà affonda le radici negli anni precedenti. Nel 1993, raggiunta l’indipendenza dall’Etiopia, l’Eritrea chiede agli espatriati di donare una parte dei redditi per contribuire alla ricostruzione del Paese. La risposta è generosa. Gli emigrati pagano volentieri per sostenere il Paese. Nel 1999 scoppia una nuova guerra contro l’Etiopia. Di fronte all’emergenza, Asmara chiede alla diaspora una tantum di un milione di lire e un versamento mensile di 50mila lire. Il peso di questi contributi inizia a diventare elevato, ma gli emigrati non si tirano indietro.

Nel frattempo, però, il sistema politico si è trasformato in una dittatura che reprime ogni opposizione, senza rendere conto di come i soldi ricevuti siano utilizzati. Gruppi di eritrei all’estero iniziano allora a chiedere la riduzione della tassa perché illegale. Il regime non cede adducendo il pretesto di altri stati – come Stati Uniti e Israele – che prevedono imposizioni sui cittadini all’estero.

Per Asmara quest’imposta è una fonte di valuta estera che fluisce nelle sue casse in contanti, non  potendo gli espatriati pagare con assegni, carte di credito, bancomat. E chi non paga si vede negata la possibilità di rinnovare documenti, acquistare e vendere immobili, partecipare a successioni testamentarie, inviare aiuti ai familiari, ed anche di rientrare in patria.

Questo flusso di denaro insospettisce anche l’Onu. Di conseguenza in Canada, in Svezia, in Svizzera si cominciano ad avviare indagini da parte delle autorità sulla Diaspora Tax, imposta che, oltre a violare i diritti umani degli emigrati, potrebbe rappresentare una violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari.

Il nostro Paese non solo sta a guardare senza avviare ufficialmente alcuna inchiesta, anzi quando  il 23 dicembre 2009 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha ufficializzato l’accusa contro il dittatore eritreo Isaias Afewerki, e i suoi ministri per il loro appoggio logistico e militare all’organizzazione Al Shabaab e ad altri gruppi alleati di Al Qaeda in Somalia, imponendo l’embargo sull’Eritrea, il governo italiano e la Regione Lombardia non hanno fatto certo una bella figura: combattere il terrorismo a parole  e contemporaneamente vendere armi ai governi che addestrano i terroristi. E’ la seconda volta, sotto la presidenza di Roberto Formigoni, che la Regione Lombardia viene pizzicata in affari o amicizie ingombranti. Era già successo con il dittatore iracheno Saddam Hussein.

Il 16 marzo 2010 “La Repubblica” rende note le nuove accuse che sarebbero rivolte a Pier Gianni Prosperini, amico di Formigoni e assessore al Turismo della Regione Lombardia da parte della procura di Milano, già arrestato per corruzione e turbativa d’asta.  Secondo la procura, Prosperini ha gestito un traffico di armi e munizioni in Eritrea, dove ha rifornito il regime del dittatore eritreo Isaias Afewerki, eludendo i controlli internazionali e gli embarghi e garantendo all’Assessore un’entrata illecita semestrale.

Così i soldi della Diaspora Tax, così pesante per gli emigrati eritrei sono serviti anche per impinguare le tasche di un altro “perseguitato giudiziario” lombardo!

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