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Egitto. Oltre 500 condanne a morte: giustizia o rappresaglia?

Fa ancora discutere la condanna alla pena capitale di 529 sostenitori del Presidente deposto Mohammed Morsi, accusati di aver ucciso un poliziotto e di essere responsabili di violenze durante le proteste dell’agosto scorso, giorni in cui l’esercito e la polizia spararono ad altezza d’uomo sui manifestanti.

Per quanto riguarda il poliziotto ucciso si ha notizia che la stessa moglie ha testimoniato sull’innocenza degli imputati. Tra i condannati anche la guida spirituale Mohammed Badie, leader del movimento dei Fratelli Musulmani e l’ex presidente del Parlamento, Saad al-Katatni. Dei 529 condannati 153 sono in carcere, 16 imputati sono stati assolti e gli altri sono ricercati.

La decisione sulle condanne dovrà essere ratificata entro fine aprile, nel frattempo il gran Muftì di al-Azhar, la più grande autorità sunnita egiziana, dovrà dare il suo giudizio religioso sulla sentenza. Si pensa ad una nuova strategia contro il movimento islamista voluto dal governo egiziano guidato dai militari, dopo la caduta e l’ imprigionamento di Mohammed Morsi.

Nel corso di un incontro avvenuto mercoledì scorso a Bruxelles tra Ban Ki-moon e il ministro degli Esteri egiziano, Nabil Fahmy, si è parlato delle condanne e il Segretario generale dell’Onu ha sollevato la sua grande preoccupazione per la questione. Anche Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha recentemente espresso preoccupazione per la repressione pesante delle forze di sicurezza egiziane e l’uccisione indiscriminata di manifestanti anti-governativi.

Il governo militare egiziano ha imprigionato quasi 16mila persone nel corso degli ultimi mesi e 1.400 sono rimaste uccise nelle violenze dopo la cacciata di Morsi, la maggior parte di loro a causa della forza eccessiva usata dalle forze di sicurezza. Quando un tribunale arriva a condannare a morte 529 imputati, qualsiasi cosa siano stati capaci di fare, non è più una sentenza: è un massacro inaccettabile.

di Sara Soliman

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