Ecco come il sistema produttivo italiano viene distrutto dalle delocalizzazioni
Di tanto in tanto, gli organi d’informazione tornano a parlare di uno dei fenomeni correlati al diffondersi del libero mercato. Si tratta della delocalizzazione, processo che consiste nella dislocazione dei processi produttivi in aree geografiche diverse rispetto a quelle in cui un’azienda ha sempre operato. È così che un ipotetico fiore all’occhiello industriale di una data nazione, storicamente noto per il contributo sociale elargito mediante l’offerta di lavoro messa a disposizione della collettività, decide di abbassare le saracinesche per rialzarle altrove. In nome del profitto, dunque, l’azienda tradisce la propria funzione sociale. E là dove un tempo c’erano produttività e lavoro, d’un tratto si crea quel vuoto dovuto a inoperosità e disoccupazione.
Pochi giorni fa, il termine delocalizzazione è tornato a comparire sulle pagine dei giornali. Condito da un amaro sapore di beffa per decine di operai. Tre aziende operanti in tre proficue zone industriali del Nord Italia, infatti, hanno approfittato della pausa estiva per preparare armi e bagagli e volare lontano dai nostri confini nazionali. Il tutto, all’insaputa dei dipendenti, i quali, una volta tornati dalle vacanze, si sono ritrovati senza lavoro e senza garanzie di nessun tipo. Nel buio più totale, insomma.
È quanto successo ai 42 dipendenti della Firem, per esempio, azienda specializzata nella produzione di resistenze elettriche con sede a Formigine, vicino Modena. Durante la chiusura agostana, i titolari si sono affrettati a svuotare completamente lo stabilimento per un trasferimento in Polonia, lasciando pertanto inevasi gli accrediti degli stipendi di luglio. L’intervento delle istituzioni e dei sindacati ha tuttavia convinto l’azienda ad affidarsi alla cassa integrazione a zero ore per un periodo di un anno con partenza immediata, nell’attesa che avvenga un piano industriale per evitare la delocalizzazione completa dell’azienda.
A Forlì, si è verificato un copione simile. Nella notte del 23 agosto, stando alla denuncia di alcuni sindacati del territorio, i dirigenti della Dometic, azienda svedese che produce generatori elettrici, avrebbero provato a “svuotare la fabbrica, fermati solo grazie all’intervento dei lavoratori e delle forze dell’ordine”. Secondo quanto riferito dalle organizzazioni sindacali, i lavoratori dello stabilimento, “immediatamente accorsi davanti ai cancelli hanno chiamato le forze dell’ordine. All’arrivo dei Carabinieri la situazione, paradossale nella sua gravità – scrivono nella nota – era quella di dirigenti di una multinazionale svedese che, comportandosi come ladri nel cuore della notte, cercavano di svuotare i magazzini”.
A Pero, invece, località vicino Milano, i lavoratori della Hydronic lift, fabbrica che produce componenti idraulici e meccanici per ascensori, si sono almeno risparmiati di assistere a scene grottesche come quelle descritte dai sindacati di Forlì. Ma la sostanza di quanto occorso loro rimane altrettanto beffarda. Durante la settimana di ferragosto, hanno ricevuto una lettera con cui l’azienda li informava di aver avviato una procedura di cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività. Per gli operai un fulmine a ciel sereno, poiché il 2 agosto si erano salutati dandosi appuntamento per la riapertura dell’attività, senza che nessuno fiutasse sentori preoccupanti.
Tre vicende, quelle appena descritte, che testimoniano lo stato agonizzante cui si trova attualmente una fetta importante del sistema industriale italiano. Già nel marzo scorso, Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, denunciava a Il Fatto Quotidiano che «fare impresa in Italia è molto più difficile che altrove. Le tasse, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano degli ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima nei confronti dell’azienda è più favorevole». E quanti sono questi imprenditori fuggitivi cui fa riferimento Bortolussi? Ebbene, dal 2000 al 2011 le imprese che hanno delocalizzato hanno superato le 27mila unità, facendo registrare un aumento del 65%.
Questo il quadro. E mentre da più parti e costantemente si levano voci – sovente disperate, quando si tratta di lavoratori che perdono il proprio posto di lavoro – per sferzare Governo, Parlamento e sindacati ad aprire un tavolo con le imprese finalizzato all’attuazione di un piano di emergenza per tutelare lavoratori e aziende, si apprendono notizie come la seguente: nell’ottobre 2012, il Comitato direzionale per la Cooperazione allo sviluppo della Farnesina, “per venire incontro e coniugare le attività a favore dei Paesi in difficoltà con la necessità di internazionalizzazione delle aziende italiane in un momento in cui, a causa della crisi economica, le risorse a disposizione sono sempre meno”, ha deciso di rilanciare lo strumento dei crediti agevolati alle imprese italiane che intendono creare joint venture in Paesi del Terzo Mondo.
Morale della favola, i lavoratori italiani lamentano la chiusura delle aziende. E lo Stato, per tutta risposta, cosa fa? Incentiva le aziende stesse a “internazionalizzarsi”, ossia asseconda questo flusso centrifugo chiamato delocalizzazione che sta frantumando quello che un tempo era l’invidiabile “sistema produttivo italiano”.