Diritti Umani: Myanmar rifiuta inchiesta Onu sul genocidio Rohingya
Il Myanmar ha rifiutato l’accesso ai membri dell’Onu incaricati di indagare sulle accuse di uccisioni, stupri e torture da parte delle forze di sicurezza contro i musulmani Rohingya, violenze che potrebbero rappresentare pulizia etnica.
Il governo, guidato dal premio Nobel Aung San Suu Kyi, aveva già riferito nel mese di marzo che non avrebbe cooperato con una missione delle Nazioni Unite istituita dopo una risoluzione adottata dal Consiglio dei diritti umani.
Kyaw Zeya, segretario permanente presso il ministero degli Affari Esteri nella capitale Naypyidaw, aveva dichiarato: “Se vogliono inviare qualcuno per quanto riguarda la missione di fatto, allora non ci è motivo per farli venire”, aggiungendo che i visti per entrare in Myanmar non sarebbero stati rilasciati a nessuno del personale che lavora alla missione.
Nel mese di dicembre, più di una dozzina di fautori Nobel aveva scritto una lettera aperta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avvertendo di una tragedia “che comprendeva la pulizia etnica e crimini contro l’umanità, il potenziale per il genocidio”.
Il governo birmano aveva in precedenza eliminato le prove di violazioni dei diritti umani valutandole un falso prodotto di “propaganda”. Aveva anche considerato “esagerato” un rapporto dell’Onu pubblicato nel mese di febbraio, secondo cui si denunciavano le forze di sicurezza per l’uccisione di bambini con coltelli tra le “operazioni di liquidazione”, per aver sottoposto la popolazione dei Rohingya a percosse brutali, sparizioni, stupri di massa, torture e uccisioni.
Aung San Suu Kyi, giunta al potere lo scorso anno in una transizione dal dominio militare, guida il suo Paese attraverso la posizione appositamente creata di “consigliere statale”, ma è anche ministro degli Affari Esteri. Anche se non sovrintende ai militari, Aung San Suu Kyi è stata criticata per non avere affrontato il problema di più di 1 milione di musulmani Rohingya lasciati senza Stato nella regione di Rakhine, un tassello di tensione tra i musulmani della minoranza Rohingya e la maggioranza dei buddisti.
Il Premio Nobel per la pace ha dichiarato questo mese durante un viaggio in Svezia, che la missione delle Nazioni Unite “avrebbe creato una maggiore ostilità tra le diverse comunità”, e che lei era chiamata a difendere come attiva nella difesa dei diritti umani del suo Paese.
Attiva nella difesa dei diritti umani del suo paese?
Aung San Suu Kyi è certamente consapevole della sua posizione di agente di destabilizzazione filo-occidentale prima della liberazione, quando poteva abusare della propria immagine di “martire politico” e riunire una teppaglia buddista ultranazionalista che ha mantenuto da allora il Myanmar in uno scontro aperto tra alcune delle comunità buddiste e musulmane, le cui epurazioni indiscriminate della minoranza hanno causato l’apertura di un tragico fronte di violenze e conseguente migrazione a cui sono costretti i Rohingya.
di Cristina Amoroso