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Il destino di Cuba fra Mosca e Washington

Per Cuba, la morte di Castro è avvenuta in un momento delicato che deciderà del suo futuro. L’Isola dovrà scegliere fra continuare la sua strada di opposizione all’imperialismo, trovando i necessari appoggi economici e politici, o abbracciare Washington, aprendosi agli investitori yankee e trasformandosi in una Disneyland caraibica posticcia.

CastroPer decenni Cuba ha potuto contare sugli aiuti di Mosca, a cui rispondeva con la canna da zucchero e soprattutto con il forte contributo del suo Esercito, in Africa e in altre parti del mondo, per contrastare l’imperialismo Usa e i suoi alleati; un connubio solido che si è dissolto insieme all’Urss.

Con la fine della Guerra Fredda L’Avana e Mosca (troppo immersa nei suoi problemi e per anni presa dalla voglia di compiacere Washington) hanno preso strade diverse. Cuba ha dovuto riorganizzarsi per resistere alla pressione Usa, aprendo a canadesi, spagnoli, messicani e finalmente trovando una valida sponda nel Venezuela bolivariano, mentre la Federazione Russa per anni si è disinteressata all’Isola, divenuta per essa marginale. Per capirlo basti dire che dal 2000 ad oggi il commercio russo con l’America Latina è cresciuto del 900% ma quello con Cuba è rimasto invariato, al livello minimo del dopo Guerra Fredda.

Putin da tempo tenta di ricostruire quel rapporto strategico: due anni fa ha deciso un taglio del 90% del debito dell’Avana verso Mosca (35 Mld di $), col rimanente 10% da reinvestire sull’Isola; l’anno scorso ha concesso un prestito di oltre 1 Mld per la costruzione di centrali termiche e un altro di 100 ml per migliorare la metallurgia. Ma non è detto che basti; quell’abbandono e quel lungo disinteresse per Cuba, lasciata sola dinanzi ad uno Zio Sam minaccioso, pesa.

Resta da vedere come evolveranno i rapporti con gli Usa: per Washington l’Isola ha un valore strategico irrinunciabile, oltre a costituire un intollerabile affronto al suo imperialismo posto a 90 miglia da Key West. Con la fine della Guerra Fredda, Cuba è divenuta meno rilevante per gli Stati Uniti, e il fatto che per anni abbia trovato appoggio nel Venezuela, Paese oltremodo scomodo ma giudicato strategicamente non pericoloso, è stato in qualche modo tollerato dall’establishment yankee.

Le cose sono cambiate col progredire della crisi dello Stato bolivariano, che esponeva l’Isola, per necessità, all’influenza cinese o di altre potenze considerate ingombranti od ostili. Di qui l’apertura avvenuta sotto la spinta delle Agenzie federali (Dipartimento di Stato, Pentagono, etc.) e cavalcata da Obama come fosse farina del suo sacco.

Adesso l’elezione di Trump sembra rimescolare le carte, ponendo Cuba dinanzi ad un’alternativa: o rinnegare se stessa e il suo passato, consegnandosi senza condizioni allo sfruttamento delle multinazionali yankee verniciato malamente da “american dream”, o tornare a una contrapposizione dura, al momento senza appoggi (soprattutto economici) giudicati solidi.

In realtà, dietro le apparenze le cose stanno diversamente: Trump è un businessman senza scrupoli che in tempi non sospetti avrebbe volentieri buttato alle ortiche le sanzioni per fare affari; se tuona contro L’Avana lo fa per il debito che ha verso i fuoriusciti cubani della Florida che gli hanno garantito la vittoria e i tanti altri elettori dell’America “profonda” rimasti fermi alla Guerra Fredda. A mettersi di traverso sulla via della distensione è il Congresso, per questioni “ideologiche” (leggi ottusamente preconcette) e per il medesimo debito verso un elettorato reazionario.

Ciò porterà sicuramente ad un inasprimento immediato delle relazioni, a tanta scena, ma assai difficilmente ad un ritorno del muro contro muro che è contro gli interessi tanto dell’establishment Usa, quanto degli investitori a Stelle e Strisce che sbavano per ridurre Cuba ad un colossale parco giochi.

Appunto, è questo il rischio, in verità paventato dallo stesso Fidel Castro: un negoziato estenuante (ed impari) che lentamente faccia slittare l’Isola nella sfera d’influenza di Washington; un successo per lo Zio Sam e per i tanti speculatori yankee (e non solo) che hanno messo gli occhi su Cuba; un rischio amplificato dal generale arretramento, verificatosi in America Latina, dei partiti progressisti che vedevano in Castro il proprio riferimento.

Due sono le vie che potrebbero scongiurare la fine di un’esperienza straordinaria, del tentativo di riscoprire un socialismo non dogmatico, coerente fra progetti e azioni, che non è riuscito a divenire appieno ciò che avrebbe voluto per la selvaggia aggressione dell’imperialismo che vedeva in esso un nemico mortale.

La prima, la più impellente, è la ricerca di solide alleanze e cooperazioni con Paesi estranei all’impero yankee. E qui rientra in gioco Mosca, che nel suo ritrovato status di grande potenza ha tutta intenzione (e l’interesse, soprattutto politico) di cooperare con Cuba, a condizioni assai più accettabili di quanto non sarebbe disposta Pechino. E anche se l’aiuto russo, a causa dei crescenti impegni internazionali (Ucraina, Medio Oriente, etc.) e dell’ancora non superata crisi economica, potrebbe non essere imponente nell’immediato, per l’Isola sarebbe comunque determinante.

La seconda via, politica, che rilancerebbe Cuba e la sua Rivoluzione, sarebbe la rivisitazione di quella straordinaria intuizione di Castro che fu all’origine del progetto bolivariano: la costruzione di una rete di Paesi latino americani (e non solo), che condividano i medesimi valori.

Ma dinanzi al fallimento evidente di troppi partiti, che tramutatisi in burocratiche macchine di potere hanno deluso la propria base sociale e ne sono stati pesantemente puniti regalando il successo alle destre liberiste patrocinate da Washington, sarebbe piuttosto da ricostruire un’Internazionale dei movimenti, capace di mobilitare i tanti esclusi dalle società piagate da ingiustizie e diseguaglianze crescenti. Era il sogno di Che Guevara, che oggi torna più che mai attuale e che troverebbe molte sponde.

di Salvo Ardizzone

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