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Dai fallimenti in Siria alla strage di Soma… Fermate il “Sultano” Erdogan

di Salvo Ardizzone

“Per quelli che danno la vita per una manciata di carbone”, è la scritta che è stata posta dinanzi al pronto soccorso di Soma, la città che vive del “lavoro” offerto da quelle miniere assassine, che il 12 maggio hanno preteso il prezzo di 301 vite. Una tragedia che più annunciata non poteva: solo due settimane prima del disastro, il Chp, il partito laico d’opposizione, aveva presentato un’interrogazione in Parlamento sui tanti, troppi, incidenti avvenuti a Soma.

E non potrebbe essere diversamente: le privatizzazioni selvagge, attuate dal “Sultano” Erdogan a favore di imprenditori “amici”, hanno permesso al proprietario della Soma Coal Mining Company (che gestisce ora la miniera), di vantarsi d’aver ridotto da 130 a 24 dollari il costo per tonnellata di carbone, ovviamente a scapito delle più elementari misure di sicurezza (non a caso la Turchia occupa il terzo posto al mondo per le morti bianche).

La rabbia era ed è tantissima, ma dinanzi al lutto della gente Erdogan non si è smentito, mostrando per l’ennesima volta la sua arroganza e l’assoluta incapacità ad accettare altro che non sia l’adulazione di folle ammaestrate e adoranti. A Soma s’è prodotto nell’ennesimo show: invece di spiegare perché l’Akp (il partito di governo, islamico) abbia respinto la mozione del Chp, che chiedeva una commissione d’inchiesta sulla sicurezza di quelle miniere, ha risposto citando gli inevitabili rischi di quel lavoro e che (testuale) “gli incidenti in miniera sono un fatto normale”. Ovvio che le urla “Erdogan assassino” e “Erdogan ladro” si siano sprecate e che sia stato costretto a trovar rifugio col suo seguito in un vicino supermarket.

I sindacati hanno proclamato per il 15 maggio un giorno di sciopero e le proteste sono dilagate per il Paese al grido “dimissioni”; purtroppo la maggior parte delle persone continua a rimanere in silenzio, zittito dalla paura, perché in Turchia chi protesta va in galera, e lì la detenzione è dura, durissima, come potrebbero dire bene i giornalisti che affollano quelle carceri. Si, perché il numero di operatori dell’informazione incarcerati per aver osato criticare il “Sultano”, è addirittura superiore a quelli che sono detenuti nell’intera Cina.

Come più volte abbiamo accennato, dopo anni di crescita e sviluppo, la Turchia si trova in un momento delicatissimo: annaspa dietro alle sortite sempre più assurde del suo timoniere. I casi si moltiplicano all’infinito: leggi liberticide, repressione d’ogni dissenso, controllo su libertà di stampa e opinione, drastica limitazione dell’indipendenza della magistratura e ancora: scandali d’ogni tipo in cui Erdogan è dentro sino al collo, frodi, truffe elettorali, zuffe con antichi sostenitori come Gulem; come conseguenza è inevitabile che anche l’economia, spaventata da tanto avventurismo, scricchioli e i capitali fuggano a frotte da un Paese che pareva destinato a decollare.

Per distogliere l’attenzione della gente da questi fallimenti, Erdogan ha provato pure la vecchia carta della politica estera, da un canto evocando complotti internazionali contro il suo governo, dall’altra ficcandosi nella guerra siriana, usata cinicamente per i suoi scopi, che però continuano a non portare frutti (e come potrebbero?!).

Il fatto è che Erdogan non riconosce le regole più elementari della democrazia, le rifiuta semplicemente, considerando ogni critica come un affronto; a marzo, alle amministrative, il suo partito ha ottenuto ancora il consenso, ed ora lo vuole usare per divenire Presidente alle elezioni di agosto.

L’Akp potrebbe riuscire ad imporlo, ma qui si pone la domanda se gli convenga insistere su un leader così “ingombrante”, che tutto ciò che fa lo compie per sé, per il proprio ego smisurato e per gli interessi della propria cerchia stretta; in questo caso potrebbe essere riproposto l’attuale Presidente Abdullah Gul. E finalmente potrebbe essere il tramonto di un uomo che non merita di governare la Turchia.

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