Da Syriza a Podemos, le nuove facce della vecchia Europa
Dopo il crollo del Muro, nell’89, l’Europa fece una scelta: miope. Semplificando al massimo, liberata dal ricatto bipolare, che inchiodava la parte Occidentale a Washington e quella Orientale all’impero sovietico che era imploso, decise d’interrompere il processo d’aggregazione politica, giunto sulla soglia di confederare gli allora 12 membri in una vera entità, per una somma di gelosie e paure verso una Germania unificata, pensando che essa sarebbe divenuta così la leader del Continente. Su questa convinzione i “decisori” europei imboccarono una via ambigua, che lasciava nelle loro mani le scelte politiche e metteva in comune l’indirizzo economico, ma anche questo sino a un certo punto, evitando di porre regole chiare.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un ectoplasma elefantiaco retto da burocrati ottusi, che s’è dilatato a dismisura senza alcun progetto comune, lasciando in vita tutte le fratture fra l’area mediterranea e quella del nord, fra la parte occidentale e quella orientale e così via. Su questo aborto – voluto – s’è calata una moneta unica e un sistema di regole costruito negli anni, che l’inettitudine della gran parte dei governanti ha permesso che fosse ritagliato nell’interesse di pochi Paesi.
La Ue s’è così trovata senza una propria anima politica, lasciando i singoli Stati in balia delle ingerenze, più o meno marcate ma comunque onnipresenti, che venivano da oltre Atlantico; ma s’è trovata anche senza un’anima economica, che la politica avrebbe dovuto dettare, lasciando campo libero a chi aveva più forza, cioè la Germania. Semplificando al massimo, le istituzioni della Ue si sono tramutate in uno strumento per l’imposizioni delle regole congeniali al Sistema Paese tedesco e degli Stati all’interno della sua sfera economica (leggi Finlandia, Olanda, Austria e così via). Un simile organismo è divenuto facile terreno di conquista per lobby, grandi aziende e gruppi internazionali, con l’unica ottica del profitto, della più alta remunerazione per il capitale, del bilancio, al di là di qualsiasi considerazione per i Popoli e i territori, per lo sviluppo vero dei Paesi.
Il meccanismo perverso era evidente, ma è stato sistematicamente sottovalutato da governanti mediocri fino allo scoppiare della crisi; allora, tutte le contraddizioni del Sistema Ue sono venute a galla e i “decisori” politici dei vari Stati membri non hanno saputo dare risposte a una Germania che, testardamente, ha imposto le proprie ricette senza curarsi minimamente di cogliere le differenze fra le Nazioni.
Gli effetti li conosciamo tutti: nel caso della Grecia, il più eclatante, Berlino ha avuto l’ottusa malafede di celebrare come un successo un più 0,7% del Pil (dopo un crollo del 30%) e un equilibrio di bilancio raggiunti al prezzo della distruzione d’una Nazione. La reazione non poteva mancare, perché gli errori politici, la corruzione, l’inettitudine e l’eccesso di spesa di classi dirigenti indegne del ruolo, non possono essere tutti addebitati, oltre ogni capacità di sopportazione, ai Popoli messi in difficoltà. La protesta non ha però adottato le tradizionali categorie del Novecento: le contrapposizioni destra/sinistra, lavoro/capitale, quanto quella che mette di fronte il Popolo e i governanti, che hanno mostrato, tutti, la loro inadeguatezza.
Ciò detto, i movimenti sorti nei Paesi, se manifestano un comune rifiuto nei confronti della Ue, quale essa è divenuta, hanno però preso due vie assai diverse; da una parte ci sono quelli che hanno alla base la paura di perdere qualcosa: il benessere raggiunto che svanisce, i riferimenti culturali per sbiaditi che siano a cui s’aggrappano e così via; di qui l’egoismo, la xenofobia, l’odio verso gli immigrati e il rifiuto di chiunque sia diverso da essi, in nome di un ossessivo richiamo alla comunità ristretta vista come un rifugio. Da questo filone nascono i populismi della Lega in Italia, del Fronte Nazionale in Francia, dell’Ukip in Inghilterra e tanti altri: qui i valori veri non c’entrano, il loro è un messaggio di chiusura, un arrocco in difesa di un mondo che non c’è più e contro un altro che non si comprende.
Dall’altra parte ci sono movimenti che hanno messo al centro una maggiore giustizia sociale, l’attenzione per i più deboli, la solidarietà, il rifiuto netto che l’unico metro e fine sia il profitto e infine la lotta ad ogni assoggettamento. Tanto i primi sono chiusi e hanno per molla la paura, quanto i secondi sono inclusivi e sono mossi dalla rabbia verso un sistema ingiusto. Da questo secondo filone traggono vita Podemos in Spagna e Syriza in Grecia.
Lo ripetiamo: ascriverli secondo le tradizionali partizioni destra/sinistra è arduo, perché sono i valori e il mondo che li esprime ad essere mutati, restano però sensibilità e motivazioni profondamente diverse. Inoltre, mentre i primi hanno scarse o nulle radici culturali, programmi rozzi e una proposta politica fatta di pochi slogan mirati a colpire le paure della gente, i secondi pescano in un vasto retroterra che, nel caso di Podemos, spazia da Gramsci a Laclau (un filosofo argentino che ha analizzato il peronismo e il populismo di sinistra) senza temere contaminazioni, che sono viste come un valore aggiunto. Le loro sono proposte capaci di indicare alternative all’ossessione iperliberista del “Mercato”, con impostazioni keynesiane che mettono in testa lo sviluppo della collettività piuttosto che l’egoismo dei singoli e del profitto.
Ora, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, a fine anno ci saranno le elezioni in Spagna, un altro Paese che ha pagato moltissimo il servaggio di Berlino e le politiche liberiste applicate. Se, come dicono i sondaggi, Pablo Iglesias, il leader di Podemos, doppiasse il successo di Tsipras, si salderebbe un fronte che metterebbe in crisi il sistema di potere di Bruxelles e chiuderebbe col servaggio che viene d’oltre Atlantico, aprendo la prospettiva di un’Europa solidale dei Popoli. È questo che fa tremare molti Palazzi, e susciterà le feroci reazioni di chi si gioca il potere di sempre contro la ribellione di chi è stato oppresso.
Un’ultima riflessione: mentre in Europa si mettevano in moto movimenti di protesta contro un sistema d’assoggettamento politico ed economico, anche l’Italia ha conosciuto la sua ondata di sdegno contro una classe politica che peggiore è difficile immaginare, e un establishment occupato solo dei propri interessi. È stato un movimento potente, che avrebbe avuto tutte le caratteristiche per divenire come Syriza o Podemos, e che, fin da subito e assai più degli altri, ha avuto la straordinaria occasione d’incidere e condizionare tutta la politica italiana; coi primi risultati tangibili, mai realisticamente cercati, sarebbe divenuto un fiume in piena capace d’imprimere all’intera società una vera svolta quasi immediata. Ma è stata un’altra storia.
Fin dall’inizio è stato scientemente incanalato su una via diversa: pilotato in modo verticistico dai suoi capi, che così ne hanno mantenuto il controllo assoluto, ha rifiutato ogni radice culturale (volteggiando con disinvoltura fra l’Ukip e Syriza) e di strutturarsi su basi realmente democratiche, rinviando ogni dibattito alla “rete”, vista non come un potente strumento di mobilitazione e propaganda, ma deificata come unico strumento di legittimazione. In questo modo, dibattito, obiettivi e modalità di conseguirli si sono frammentati e divenuti virtuali, così da essere facilmente monopolizzati da un vertice che ha personalizzato il potere al di là d’ogni contenuto (assai spesso troppo carente se non mancante).
Il risultato è stato la sterilizzazione d’una irripetibile occasione d’abbattere i servaggi del Paese: energie immense sono state dissipate, indirizzate su obiettivi secondari, spesso risibili dinanzi al quadro generale. È stato uno spreco immenso e il congelamento d’una opposizione che, se liberata e messa davvero in gioco, avrebbe travolto le reti di potere che asserviscono l’Italia. Coloro che l’opprimono ringraziano.