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In Politica se non riesci a convincerli, confondili

La festa della Repubblica è da poco trascorsa. Una giornata che si somma alle tante andate via, rapidissima nelle sue ventiquattro ore, tutte sgattaiolate dal retro delle nostre vite. Ma quel 2 giugno di settantaquattro anni fa è stato molto più che il referendum tra monarchia e repubblica, è stato anche un esordio. Nei cliché dei maliziosi, la prima volta non si scorda mai, ma nella realtà pare che le cose vadano diversamente. Quel secondo giorno di giugno 1946, sembrano in tanti ad esserselo scordati, fu la nostra prima volta, di tutte noi: la prima volta che le donne hanno potuto votare in Italia. Iniziò così quel tortuoso cammino della politica, ancora tanto lungo e ispido, che premia il popolo che non si stanca di percorrerlo fino in fondo e che, giunto in vetta, può ammirare il panorama più bello: la parità di genere.

Ma che forma ha la nostra politica? La politica è la principale sovrastruttura che nei secoli hanno plasmato il mondo. È un’arte che nasce dall’idea che spostare su un terreno pacifico, lontano dai campi di battaglia, gli attriti che pulsano dentro a ogni comunità, ci permetta di superare ciò che ci separa per poterci dirigere con forza maggiore verso il progresso e il benessere comune.

Cos’è il progresso?

Già, ma che cos’è il progresso? Sarà utile qui citare Pasolini, per il quale il progresso è un miglioramento qualitativo della condizione umana. Al progresso egli accostava qualcosa di simile, ma di molto diverso: lo sviluppo. Quest’ultimo lo definiva come l’aumento quantitativo di mezzi a disposizione che non necessariamente migliorano la condizione umana. C’è l’impressione che, da diverso tempo, la politica, a livello internazionale e spesso anche regionale, si stia dedicando a perseguire lo sviluppo, senza quasi badare più al progresso. Perché lo pensiamo? Perché, altrimenti, non si spiegano tutte quelle contraddizioni che si riscontrano con sempre maggior frequenza, sopratutto nelle nostre economie.

Con oltre tre miliardi di persone che soffrono la fame nel mondo, perché la politica non interviene per ridurre gli sprechi?

Come mai produciamo così tanto e male, quasi la sovrabbondanza e lo spreco fossero il fine ultimo della produzione? Per dirla con un esempio, ogni anno, 1/3 del cibo del mondo (1,3 miliardi di tonnellate) viene sprecato senza arrivare neanche a tavola, pur essendo prodotto e lavorato. Tutto perché va a male in azienda, si perde, diventa immangiabile durante la distribuzione, si deteriora durante il trasporto o viene gettato via nei negozi alimentari al dettaglio, ristoranti e cucine. Con oltre tre miliardi di persone che soffrono la fame nel mondo, è ragionevole chiedersi come mai la politica non interviene per ridurre gli sprechi? È pensando a queste cose che la stessa idea di politica sembra differente dall’immagine famigliare e cara che abbiamo avuto.

Il nostro modello democratico sembra in crisi. Da tempo si osserva come, nelle democrazie occidentali, gli slogan abbiano preso il posto dei programmi e tutti sembrano accontentarsi di proclami che difficilmente potranno tradursi in un’attività politica matura o in risultati concreti. Gli studiosi la chiamano democrazia recitativa e le attribuiscono alcune precise caratteristiche. “La democrazia recitativa si svolge con tutti i rituali tipici della democrazia classica, con la propaganda, con il voto, con la proclamazione dei vincitori, ma non crea un reale controllo dei governanti sulla realtà che dovrebbero governare”. Questo perché il luogo della decisione si sposta dalle sedi consuete, parlamenti, governi e assisi varie, e le scelte vengono fatte conformemente alle necessità del tipo di oligarchia che in quel momento è imperante (finanziaria, tecnologica, bellica…).

La politica diventa virtuale

Così facendo, però, la politica smette di essere un disegno per determinare la condotta degli uomini, le modalità di stare tra loro insieme. Sembriamo vivere in uno stato di attenzione parziale permanente. Siamo talmente bombardati da immagini, suoni e scritte che ci piovono da ogni angolo, della rete e del mondo in cui viviamo, che non abbiamo il tempo per capire che cosa stia succedendo realmente. La nostra capacità di attenzione, pur essendo sempre vigile, finisce col scemare, sfibrandosi esausta, senza più saper discernere tra ciò che conta e il superfluo. Siamo talmente frullati insieme a tutti questi dati e notizie che non siamo nemmeno più in grado di riconoscere il falso dal vero e ogni titolo scandalistico e allarmante ottiene frotte di commentatori e sostenitori. In tutto questo, anche la politica diventa virtuale. Sulle slide è tutto chiaro e limpido.

Sembra quasi che ogni partito venga da un pianeta diverso, per come racconti una realtà tanto differente da quella proposta dai suoi avversari. In quelle lavagne luminose ogni soluzione è semplice. La complessità è bandita; o sei pro o sei contro. Non puoi nemmeno prenderti tempo, perché tra poco l’oggetto del confronto si sarà spostato quel che basta per lasciarti indietro con il tuo parere inespresso. L’idea che si crea nella nostra mente quando pensiamo alla democrazia è molto diversa. È l’esercizio di un potere pubblico fatto in pubblico. Un confronto continuo sulla cosa pubblica, condotto a porte aperte, perché tutti ne possano prendere parte e nessuno lo subisca. La nostra idea di democrazia è diversa, perché l’immagine che si crea nella nostra testa al solo pensarla è quella del nostro sorriso.

di Adelaide Conti

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