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Crisi Ilva: aspettando un nuovo “miracolo” renziano

di Salvo Ardizzone

L’Ilva, è arcinoto, è il più grande centro siderurgico d’Europa che, sotto la gestione dei Riva, ha avvelenato Taranto e tenuto l’intera città sotto l’ignobile ricatto fra lavoro (e licenza d’inquinare a volontà) e salute. Non ci soffermeremo sulle vicende giudiziarie che hanno fatto scoppiare quel bubbone, se ne sono occupate ampiamente le cronache: il succo è che quell’acciaieria era una gallina dalle uova d’oro per la proprietà, perché produceva in spregio d’ogni norma ambientale e non solo. Dopo il commissariamento, i nodi sono venuti tutti al pettine.

Secondo autorevoli stime, quel colosso ha il “break-event point” (in parole povere va in pareggio coi costi) a 8 ml di tonnellate annue di produzione; al momento, sia a causa della crisi mondiale che delle travagliate vicende degli ultimi anni, ne produce 5,7, vale a dire che è in perdita netta, e pesantissima.

Venderla a qualcuno, malgrado il gran parlare, è irrealistico; quello della siderurgia è un comparto complicato in cui è in corso una ristrutturazione mondiale, sotto i morsi d’una crisi che ha ristretto i consumi. L’Arcelor Mittal, tirata in ballo dal Gruppo Marcegaglia con la benedizione del Commissario Gnudi, è interessata solo a impedire che altri competitor internazionali possano impadronirsi di quella colossale piattaforma per entrare nel mercato degli acciai speciali e inox europei, non certo per fare concorrenza a se stessa. Insomma, ha mostrato interesse, si, ma ponendo condizioni inaccettabili perché, in sostanza, prenderebbe l’Ilva per chiuderla in gran parte, e tanti saluti a operai, indotto e produzione.

Chiusa la porta in faccia alla Posco sud coreana, la quinta società al mondo, che un certo interesse l’aveva mostrato, a Taranto non resta che chiudere bottega. Ma ecco che il Governo (leggi Renzi) s’è impadronito del problema e ha promesso a breve un Decreto Salva-Ilva; peccato che, nella sostanza, i soldi – tanti, tantissimi – che la Cassa Depositi e Prestiti dovrà sganciare, non serviranno a salvare l’Ilva, a ristrutturare impianti che non possono essere ristrutturati, né a bonificare quello che è irrimediabilmente inquinato. No. Quelle saranno le motivazioni ufficiali che faranno applaudire tutti: i sindacati, che sanno benissimo come stanno le cose; il Comune e la gente a cui si dirà la panzana che s’è risolto il problema.

I soldi dei risparmiatori che hanno libretti e buoni fruttiferi alla Posta, serviranno, in primo luogo, a colmare una voragine di un miliardo e 450 milioni, rivendicato per il 62% da Intesa S. Paolo, per il 20% da Unicredit e per il 18% da Banco Popolare, prima che la società affondi definitivamente. Così una barca di soldi pubblici sanerà gli errori (e le complicità interessate?) degli istituti di credito fra gli applausi generali; non vi sarà nessuna ripresa, perché nel 2015 è follia aspettarla; non potranno essere fatti ulteriori investimenti per il risanamento perché i soldi che servirebbero sono un’enormità; le perdite diverranno insostenibili e l’Ilva affonderà inevitabilmente, ma dopo aver saldato il debito consolidato con le banche.

Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, con buona pace di una città stuprata con la tacita acquiescenza delle istituzioni.

Gli unici problemi che impediscono ancora a Renzi di strillare evviva con una tempesta di annunci sono, nell’ordine: il fatto che la Cassa Depositi e Prestiti (l’unica che ha i quattrini per l’operazione) non può investire in aziende in perdita (e l’Ilva è sull’orlo del fallimento); l’attenzione della Magistratura su eventuali operazioni troppo “disinvolte” e la Commissione Europea, che ha i riflettori accesi sulla vicenda.

Ma volete che il nostro funambolico Premier non trovi il modo di superarli ed intestarsi un altro strabiliante successo fra i ringraziamenti di tutti, soprattutto delle grandi banche?     

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