Corea del Nord: l’ennesimo inganno made in USA
In questi giorni, specie sui social network, una minaccia latente che sullo sfondo ha uno scenario di guerra nucleare, si è trasformata in una sorta di maxi barzelletta di massa; ancora una volta, la propaganda americana ha fatto breccia e dopo aver fatto passare Kim Jong Un come l’ennesimo dittatore pazzo che attenta alla vita del mondo libero, adesso addirittura addita la Corea del Nord come uno stato fantoccio e ridicolo, capace di fare il solletico ai nervi dei politici statunitensi.
In diversi link, si vede la foto di Obama che ride assieme ai suoi collaboratori e dice “Ci minacciano? Con i loro missili, noi ci festeggiamo capodanno!”, oppure ancora, si vede Jim Jong con il binocolo esclamare un’irripetibile frase che segna un certo sbigottimento non appena vede Chuck Norris, il non plus ultra del mito dell’uomo duro americano, protagonista di numerose fiction a stelle e strisce.
Dunque, all’opinione pubblica occidentale, è stata data in pasto l’idea che gli USA hanno il controllo della situazione e che sono pronti a fare della Corea del Nord “un sol boccone”, come si legge in alcuni commenti sui social network.
Nulla di più falso in realtà; per capire le origini di quello che potrebbe essere uno dei conflitti più importanti della storia contemporanea, bisogna risalire al 2001, anno in cui nella Casa Bianca si insedia George W. Bush. Con lui, finisce ogni dialogo, si manda avanti la “dottrina Bush”, fatta di minacce, di guerre preventive e della divisione del mondo in due tronconi: i filo–americani e gli stati canaglia.
In quel momento, Iraq, Iran, Venezuela, Yemen, giusto per fare alcuni esempi, finirono nella seconda di queste liste, in cui naturalmente apparve subito anche la Corea del Nord, che proprio in quegli anni aveva fatto passi da gigante sulla via del dialogo con i cugini del sud.
Nel 1994 infatti, con la morte del fondatore della nazione nordcoreana, Kim Il Sung, e l’ascesa al potere del figlio, Kim Jong Il, ha aperto una nuova fase nella relazioni non solo tra le due Coree, ma anche tra Pyongyang e Washington; da ricordare, per esempio, la visita di Madeleine Albright, segretario di Stato USA nell’epoca Clinton, in Corea del Nord, ricevuta con tanto di onori e di parate militari; così come, rimane memorabile la sfilata degli atleti delle Olimpiadi di Sydney 2000 ed Atene 2004, in cui le due Coree sfilarono sotto un’unica bandiera, mano nella mano.
Poi, come detto, l’arrivo di Bush junior ha interrotto il dialogo ed il filo faticosamente intrecciato a cavallo degli anni ’90 e 2000, si è spezzato nel volgere di poco tempo; questo non vale soltanto per la Corea del Nord, ma anche per l’Iran e l’Iraq, oltre che per l’Afghanistan dei Talebani nel dopo 11 settembre, anche se quello di Kabul è decisamente un altro contesto.
Nascono in questi anni quindi, le rincorse agli armamenti nucleari di questi stati ed i fatti storici succeduti poi in questo decennio, hanno dato ragione a tali regimi, visto che ad essere attaccati dagli USA sono stati solamente quei Paesi che avevano rinunciato all’atomica, non a caso le guerre sono state mosse verso Saddam Hussein e Gheddafi, con quest’ultimo che aveva abbandonato l’atomica nel 2004.
Il ragionamento di Kim Jong Il all’epoca non faceva e non fa ancora una piega: il nucleare, usato nella storia solo dagli americani, nella stragrande maggioranza dei casi invece lo si adopera come deterrente e come scudo politico in caso di intenzioni bellicose di un altro stato. Sessant’anni di guerra fredda, del resto, insegnano: la rincorsa sfrenata agli armamenti nucleari negli anni ’60, serviva ad USA e URSS a controllarsi a vicenda ed a creare un certo equilibrio e non corrispondeva a reali intenzioni bellicose delle due potenze. Per Pyongyang, l’atomica ha lo stesso tipo di valore ed i piani per la sua costruzione sono andati avanti in maniera proporzionale all’intensificarsi delle esercitazioni congiunte tra marina USA e Corea del Sud e delle sanzioni economiche, le quali stanno mettendo sempre più in ginocchio l’economia nordcoreana.
Questo è il quadro ereditato da Kim Jong Un, il quale si sta dimostrando non il personaggio buffo descritto da Facebook, ma un abile stratega politico–militare; infatti, bisogna porsi la domanda del come mai il leader nordcoreano abbia deciso di alzare, almeno apparentemente i toni dello scontro.
Almeno apparentemente appunto; infatti, dobbiamo evidenziare alcuni aspetti per il quale è lecito chiedersi se sia più l’occidente mobilitato che la Corea del Nord: avete mai visto cosa accade quando Pyongyang ha necessità di fare sapere al mondo di aver fatto esperimenti nucleari? Va in onda un tg, letto da una conduttrice con toni molto alti, quasi al limite dell’isteria e dietro scorrono le immagini di marce, parate e di effigie dei leader; adesso, come mai tutto questo, nonostante l’importanza delle presunte mobilitazioni, non si è visto? Nei circuiti internazionali, non abbiamo visto un solo telegiornale di annuncio nordcoreano, un solo filmato recente di posizionamento dei missili, nulla che possa fare minimamente pensare che al nord del trentottesimo parallelo (ossia il confine tra le due Coree) ci si prepari ad attaccare.
Forse l’occidente, dopo aver creduto alle favole delle armi di Saddam e della rivoluzione democratica libica, c’è ricascato di nuovo? La situazione in Corea del Nord, sembra infatti tranquilla; se c’è del movimento, bisogna ricercarlo al sud del confine, dove da settimane proseguono serrate esercitazioni congiunte sudcoreane ed americane, troppo vicine alla linea di demarcazione con il nord e questo spiegherebbe anche il perché il governo di Pyongyang abbia deciso di richiamare dal lavoro i cittadini delle fabbriche vicine al trentottesimo parallelo.
Oltre alle esercitazioni, bisogna rimarcare come alcuni mesi addietro era cresciuta anche la pressione politica sul consiglio di sicurezza ONU affinché si inasprissero le sanzioni verso la Corea del Nord; una sindrome di accerchiamento a cui quindi Kim Jong Un non può rimanere indifferente, alzando lo stato di allerta, ma non effettuando serie minacce di attacchi imminenti verso obiettivi sudcoreani, americani o giapponesi.
Ma tornando alla domanda originaria, in caso di escalation militare, che interessi avrebbe Kim Jong Un ad entrare in guerra e come mai, soprattutto, sta crescendo proprio adesso la tensione? Vediamo di esaminare meglio quali sono i valori sul campo e non soltanto le forze; la Corea del Nord, a differenza del sud, impegnato a mostrare il suo volto sociale occidentale ed americano, ha una popolazione molto coesa, che crede fermamente nel valore del sacrificio per la nazione e per la difesa della rivoluzione iniziata da Kim Il Sung nel 1950; tutto ciò, oltre a fargli disporre di un esercito compatto, può fargli contare su una resistenza popolare che si farebbe molto dura.
Dall’altro lato invece, gli USA anche se hanno un’indiscussa, almeno in termini di numeri, supremazia militare, non godono di buona salute su altri fronti: sono infatti già impegnati in due logoranti guerre asiatiche, quella dell’Iraq e quella dell’Afghanistan, e sono alle prese con una importante crisi economica, che sta spingendo diversi stati dell’unione a dichiarare bancarotta ed a far toccare cifre astronomiche al debito pubblico.
Dunque gli States non sembrano al momento tanto in grado di potersi accollare il rischio di un’altra logorante guerra coreana, specialmente per le disastrate casse pubbliche; entrare in Corea del Nord, a prescindere dall’esito di un eventuale conflitto, costerebbe troppo anche in termini di vite umane: se già i Vietcong negli anni ’70 provocarono un’autentica ecatombe tra i soldati a stelle e strisce, è inimmaginabile quanti ragazzi sarebbe condannati a morire al cospetto di un grosso e ben equipaggiato esercito, come quello coreano.
Tutto questo, Kim Jong Un lo sa e sa bene anche come il periodo attuale, per le varie circostanze prima narrate, sarebbe quello più propizio per non cedere subito ai ricatti USA ed anzi contrattaccare, con la consapevolezza che Washington non è certo intenzionata ad imbarcarsi in una più che pericolosa avventura.
La verità è che da più parti si vuole una ripresa del dialogo, si spinge a tale soluzione politica e dunque per adesso si assiste ad un cosiddetto “gioco di nervi”, in cui Obama tenta di stringere in una morsa Pyongyang ed avere quindi condizioni favorevoli in un eventuale tavolo di confronto, ma dall’altro lato la Corea del Nord conosce le contraddizioni USA e quindi rilancia anche sobbarcandosi il rischio che i media occidentali possano far passare il messaggio che siano loro a voler muovere i primi passi bellici contro la Corea del Sud.
Come ha specificato il governo russo in una nota diffusa dal Ministero degli esteri di Mosca di qualche giorno fa, è palese come nessuno voglia attaccare per primo, ma siamo comunque all’interno di una situazione molto delicata, in cui anche il minimo segnale male interpretato potrebbe far traboccare il fatidico delicato vaso.
Tutto ciò, ovviamente, lo sa anche il Pentagono ed è forse per questo che la propaganda made in USA si sta muovendo su tutti i fronti, pur di tentare di spacciare per grossolana la minaccia nordcoreana; ma se succede per davvero il peggio, c’è il serio rischio che le immagini di un Obama sorridente e che prende alla leggera la Corea del Nord, possano appartenere esclusivamente alla fantasia.