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Congo: un Paese depredato dai crimini delle multinazionali

di Salvo Ardizzone

Il Congo è un capriccio della natura, in quel Paese gigantesco ha voluto concentrare un’incredibile quantità di risorse naturali: diamanti, oro, rame, cobalto, alluminio, coltan (di cui vi sono almeno i due terzi delle riserve mondiali), petrolio e gas; non manca praticamente nulla, anche terre fertili in abbondanza. Ma questa straordinaria ricchezza, invece di farne la fortuna è stata la sua maledizione, perché gli ha attirato addosso l’avidità del Mondo, che ha fatto e fa a gara per rapinarlo.

Cominciarono i belgi, con quel re Leopoldo II che per “incentivare” la produttività nelle piantagioni di caucciù di proprietà della corona, faceva tagliare piedi, mani o mammelle; fu il sistema coloniale più ottuso, violento e predatore che si possa immaginare. Quando il tempo delle colonie fu al tramonto, dopo averlo spogliato di tutto ciò che riuscirono a portar via, sparirono lasciandosi dietro il deserto: scarsissime infrastrutture (giusto quelle appena necessarie all’amministrazione belga), nessun investimento, nessuna classe dirigente, nulla di nulla che non fosse il caos più assoluto.

Furono anni bui di guerre civili, tentativi di secessione stroncati nel sangue, fame, disordini; da quel marasma emerse Mobutu che resse il Paese dal 1965 al 1996, con un regime tanto corrotto da essere comunemente definito “cleptocrazia”. Aveva legami stretti con gli Stati Uniti e soprattutto la Francia, ma sarebbe più esatto dire con le multinazionali di quei Paesi e di altri, perché disponeva delle incredibili risorse del Congo come di cosa propria e della sua famiglia; quando, nel 1996, una coalizione di ruandesi e ugandesi, sotto il comando di Laurent Kabila, lo costrinse a fuggire in Marocco, era uno degli uomini più ricchi del mondo, e i familiari non erano da meno.

Ma quelli che seguirono non furono anni di pace per il Congo; se fino ad allora il Paese era stato spogliato dal clan di Mobutu, ma almeno c’era stata una pace sostanziale, dal 1996 alla rapina, esercitata dopo in maniera ancora più devastante, s’è aggiunto il flagello della guerra. Nel totale disinteresse dell’Occidente si sono succedute: la Prima Guerra del Congo, subito dopo la Seconda, detta anche Grande Guerra Africana perché ha visto impegnati per anni otto Stati e 25 gruppi armati, in una mattanza che ha mietuto milioni di vittime nel più completo silenzio dei media; poi è esploso il conflitto del Kivu, per il controllo delle immense risorse di quella regione orientale del Paese, infine il conflitto dell’Ituri.

Sono stati e sono eventi lontani per l’opinione pubblica occidentale, pronta a indignarsi per inezie ma incapace d’assumere posizione dinanzi a simili montagne di morti. Sarebbe troppo lungo spiegare le dinamiche assurde di simili conflitti che covano ancora, pronti a scoppiare in nuove fiammate; è più semplice tratteggiare le cause prime, che poi sono sempre le stesse.

Le regioni orientali del Congo sono le più ricche di risorse naturali; Uganda e Ruanda, che sono confinanti, hanno sotto gli occhi ricchezze incredibili e, con la scusa dell’interminabile conflitto etnico fra tutsi e hutu, o inventandosene altri alla bisogna, intervengono militarmente per destabilizzare il Paese e rubare letteralmente quei tesori. Dietro di loro si muovono le multinazionali di tutto il mondo, senza distinzioni, i cui manager s’affollano alla corte dei signori della guerra locali, per firmare o strappare contratti a seconda degli andazzi d’una guerra infinita. Secondo numerosi rapporti dell’Onu, “le multinazionali minerarie sono state i motori dei conflitti e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo”. Per averne un’idea, ma solo quella, basterebbe leggere un bell’articolo del New York Times, che descrive l’ingorgo di jet privati sulla pista di Lubumbashi nel ’97; erano i manager delle compagnie minerarie che correvano a firmare accordi con Kabila, l’avversario di Mobutu, strappando come carta straccia quelli già siglati, prima ancora che il nuovo “uomo forte” entrasse nella capitale Kinshasa. Da allora l’andazzo è rimasto eguale.

Gli effetti sono talmente sfacciati da superare ampiamente il paradosso: Uganda e Ruanda sono divenuti all’improvviso grandi esportatori di oro, coltan, diamanti, cobalto senza che mai ne abbiano avuto e senza che mai abbiano denunciato la scoperta di giacimenti; si tratta di minerali rubati nell’inferno del Kivu e portati lì, per essere svenduti all’avidità rapace delle multinazionali. E non è questo il peggio: ogni grammo di oro, ogni carato di diamante, ogni chilo di coltan e di cobalto è frutto della schiavitù di una popolazione ridotta alla disperazione. Occorrerebbe vedere bambini che s’infilano per dodici, quattordici ore in buchi della terra pieni di fango, per tirar fuori diamanti e pepite per cui avranno al massimo solo di che sopravvivere e neanche sempre; occorrerebbe vederli, senza alcuna protezione, estrarre coltan e cobalto da miniere improvvisate, con un lavoro che li ucciderà in breve. Occorrerebbe vederli quei piccoli dannati della terra, preferiti agli adulti perché la loro statura permette gallerie più piccole da cui spesso non tornano.

Il Congo è ora uno Stato allo sbando, ridotto a rimpiangere i tempi delle ruberie di Mobutu; ora, in vaste parti del Paese e spesso le più ricche, qualunque gruppo armato può impossessarsi d’una zona mineraria trovando immediatamente qualche società che gli faccia da ricettatore per ciò che ruba; ai fini della legalità nazionale (per quel che conta) e internazionale è tutto in ordine, perché timbri e bolli vengono comprati con una manciata di dollari. Per la popolazione ci sono solo fame e violenze, troppo lontane da un Mondo troppo distratto e troppo interessato agli utili delle proprie società.

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