In Congo è morta anche la democrazia
Repubblica “Democratica” del Congo: quel nome è una beffa grottesca per uno Stato fallito, svenduto a multinazionali rapaci, con una popolazione alla miseria malgrado risorse immense e con intere regioni fuori dal controllo della Capitale.
Dire che il Paese sia allo sbando è poco, ma in questi giorni la tensione è divenuta altissima perché il presidente Joseph Kabila, al termine del suo mandato, non solo non si è dimesso, ma ha nominato un nuovo Primo Ministro (ovviamente un suo uomo) e ha detto chiaramente che intende rimanere al potere fino alle prossime elezioni, che ha rinviato al 2018.
Joseph Kabila è un figlio d’arte, nel 2001, a 29 anni, è divenuto presidente della Repubblica “Democratica” del Congo in seguito all’assassinio del padre, Laurent-Desiré Kabila, anch’esso presidente fino alla morte. Una parte delle opposizioni, dinanzi alla brutale militarizzazione del potere, nell’ottobre scorso avevano raggiunto un accordo che permetteva a Kabila di rimanere in carica fino al 2018; ma molti altri gruppi si erano opposti, e la conferenza episcopale congolese aveva offerto la sua mediazione per una soluzione politica della crisi. Un tavolo negoziale che non si è mai aperto.
La piattaforma politica Rassemblement ha lanciato un appello sia al popolo congolese che alla comunità internazionale perché disconosca il capo dello Stato e il nuovo Esecutivo; ma i tentativi di protesta sono stati repressi sanguinosamente e il Congo è una preda troppo ghiotta, in svendita a prezzi di realizzo, perché si faccia realmente qualcosa per salvarlo.
Nel Paese c’è la solita missione delle Nazioni Unite, la Monusco, inutile quanto inconcludente, e le dichiarazioni del rappresentante speciale dell’Onu per il Congo, unite a quelle delle varie Ong che fanno delle tragiche emergenze un lucroso mestiere, fanno sorridere per la loro ipocrisia.
Dire che temono una recrudescenza della repressione del dissenso e del mancato rispetto dei diritti umani in occasione delle proteste popolari, è una macabra barzelletta in un Paese in cui la violenza è endemica, la legalità un’opzione teorica ed il potere è quello discrezionale esercitato da uomini armati; che portino una divisa del Governo o la giubba da miliziani poco importa.
Quella del Congo è una storia drammatica fatta di sfruttamento e di massacri, ma l’attuale simulacro di Stato, che si regge su basi debolissime, è ora messo a serio rischio dalle mancate dimissioni di Kabila. Solo la totale militarizzazione della capitale, Kinshasa, ha impedito il dilagare inarrestabile delle proteste.
Ma quelle violenze sono l’occasione perfetta per tutti coloro che vogliono banchettare impunemente con le ricchezze del Paese: sedicenti gruppi di guerriglia, famelici stati confinanti, rapaci multinazionali e imperialismi vicini o lontani. Per il Congo, un Paese a cui non è stato concesso di farsi Nazione e a cui è stato vietato il sogno di Lumumba, potrebbe essere l’anticamera della dissoluzione.
di Salvo Ardizzone