Come i “salotti buoni” spadroneggiano sulle banche
La stretta del credito è una piaga che troppe imprese italiane hanno sperimentato, vedendosi chiudere le porte in faccia dalle banche proprio nel momento del bisogno. Il credito è ossigeno per le imprese e toglierlo in un momento critico è come staccare i tubi a chi è in rianimazione, costringendo al fallimento anche aziende sane, che hanno una momentanea mancanza di liquidità per colpe troppo spesso non proprie. E i costi sociali che ciò comporta li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Le banche si giustificano dicendo che ci sono troppe sofferenze (cioè crediti che difficilmente saranno onorati) o incagli (i crediti di problematica esazione), e gli accantonamenti che son costrette a fare dalle norme di Basilea le costringono a contrarre il credito erogato. In poche parole: ci spiace, ma siamo “costrette” a chiudere i cordoni della borsa; è l’Europa che ci costringe a farlo, perché ci impone di destinare fette sempre più grandi dei nostri patrimoni a parare i rischi dei “crediti cattivi” e a garantire quelli “buoni” resta poco: più di tanto non possiamo fare.
A parte che su questo ci sarebbe tanto da dire, vorremmo capire come s’è arrivati a quella montagna di sofferenze che cresce a dismisura giorno per giorno; per capirci, all’inizio del 2012 erano già circa 107 mld, ma dopo 14 mesi, a febbraio scorso, sono arrivate a circa 156 mld. E gli incagli sono quasi altrettanti. I “poveri” Istituti di Credito son proprio delle “vittime” della crisi?
Prendiamo tre casi a mo’ d’esempio fra i tanti (ma tanti!) che potremmo elencare: Risanamento, Tassara e Sorgenia; nomi che dicono poco e niente alla gente, ma che rappresentano voragini di miliardi. Sono esempi classici di quel “capitalismo di relazione” tutto italiano fatto di salotti buoni, dove in ovattate atmosfere e col bicchiere in mano, vengono intessuti rapporti e affari, ma coi soldi degli altri, mai coi propri.
Le radici della crisi di Risanamento sono lontane: risalgono agli immobiliaristi d’assalto del decennio scorso, tipo i “furbetti del quartierino” per intenderci. Luigi Zunino, che di Risanamento è il patron, all’epoca sognava di edificare una seconda Milano (disegnata dall’archistar Norman Foster reclutato per dar lustro all’impresa) nella vecchia periferia industriale, acquistata a prezzi di realizzo. Allora si permetteva di mettere le banche in concorrenza, quasi un’asta al ribasso, per avere i soldi necessari alle sue speculazioni: cifre da brivido, miliardi, concessi sull’unghia senza andar per il sottile (e ci amareggia constatare la brutale differenza con la pignola ottusità degli stessi Istituti, verso chi chiede il necessario per fare impresa, ma quella vera che sa di sudore).
I tempi cambiano e, da allora, l’88% del capitale di Risanamento è in mano alle banche che annaspano, non sapendo più come fare per rientrare, mentre gli interessi montano a cifre astronomiche: un’esposizione ad oggi complessiva di 2,2 mld. Il fronte degli Istituti non è compatto, a seconda del grado di esposizione (dovremmo dire di complicità nel disastro?), e dinanzi alla prospettiva di vendita al fondo inglese Chelsfield degli immobili parigini per 1,23 mld, più che sull’importo (che è abbastanza congruo) si levano dubbi sulla destinazione di quei soldi con il recente pronunciamento del Banco Popolare (creditore per 300 ml), che non vorrebbe che dietro l’operazione si celi l’ennesima furbata per sfilare quei palazzi dalle garanzie e far volar via i quattrini.
Come finirà è presto per saperlo, ma a perderci, state sicuri, non sarà Zunino che ha rischiato coi soldi degli altri.
Anche la crisi di Tassara vien da lontano; Romain Zalesky, che ne regge le fila, è un vecchio industriale metallurgico (oggi ha 81 anni) che nel 2006 fiutò il vento e decise di buttarsi nella finanza, naturalmente non con soldi propri, li chiese alle banche. Certo, l’indebitamento salì da 1,2 a 4,45 mld ma che importa: coi quattrini (non suoi ma delle banche appunto) comprò azioni della Banca S. Paolo e, dopo la fusione con Intesa, altre di Intesa – San Paolo, fino a divenirne primo azionista (con il 5,9%) dopo la Compagnia S. Paolo, cosa che lo spinse all’epoca fino alla poltrona di Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Banca (e che importa se la stessa era quella che fra tutte più lo finanziava per le sue speculazioni? Inezie). Assaggiato il successo non si fermò e investì pure in Mps, in Ubi, in Mediobanca e in Generali (e parliamo di miliardi complessivi).
Finché la borsa rimase euforica andò alla grande, alla fine del 2007 aveva un portafoglio titoli di 10,5 mld a fronte di un capitale di 1,5 mld, il resto erano soldi delle banche. Ma con la crisi del 2008 il castello crolla; quelle straniere non sentono ragioni: Bnp Paribas e Rbs si riprendono 1,6 mld prestati, quelle italiane restano al palo e allungano le scadenze di rientro, prima al 2011, poi al 2013, ora al 2016, in attesa che i titoli azionari riprendano un valore sufficiente a coprire le voragini dei bilanci.
Ridiamo amaro pensando a come quegli stessi Istituti di Credito non si creino il minimo problema a spezzare attività e vite di migliaia di imprenditori, a cui loro stesse hanno levato all’improvviso il credito, e poi trattino coi guanti gialli simili individui, che hanno speculato con la loro servile connivenza.
Di Sorgenia abbiamo già detto a lungo in un nostro precedente articolo; riassumendo, è un buco di 1,826 mld con la Cir di De Benedetti dietro, che, se entro la settimana prossima non trova soluzione (leggasi un minimo d’impegno da parte del socio Cir, che ha fortemente scommesso sull’affare, ma beninteso coi soldi delle banche), costringerà la società a portare i libri in Tribunale con tanti saluti ai 3.000 dipendenti. La Cir, che è l’unico socio rimasto in gioco, dopo che l’altro (l’austriaca Verbund) s’è tirato indietro, non ha alcuna voglia d’impegnarsi, puntando tutto su un rocambolesco salvataggio dell’Eni, che allo scorrere degli eventi pare sempre più remoto. Se va bene saranno soldi per tutti, se va male saranno le banche a piangere i problemi.
Di esempi simili ne potremmo fare tanti ancora: Una Hotels, Seves, Seat Pagine Gialle, Italtel, Imco e Sinergia dei Ligresti, Gabetti, Fisi, nomi che dicono praticamente nulla a chi tutti i giorni sgobba dietro al proprio lavoro, e che si vede negato il minimo per svolgerlo proprio dagli stessi Istituti che hanno versato somme immense in colossali buchi neri, costruiti ad arte per permettere speculazioni e ruberie; ma dietro a quelle sigle, a quei nomi, ci sono decine e decine di miliardi tolti all’economia reale che arranca per tener in piedi la baracca, su cui quei “signori”, banche incluse, ingrassano alla grande e senza scrupoli.