Colombia, una pace che ha troppi nemici
La scorsa settimana, un attacco aereo governativo contro una base delle Farc ha causato la morte di 26 guerriglieri; per tutta risposta, il giorno successivo, il Movimento ha annunciato la sospensione del cessate il fuoco unilaterale che aveva indetto nel dicembre del 2014. Lo aveva fatto a scopo di favorire i colloqui di pace in corso a L’Avana dal 2012, che, dopo aver conseguito diversi progressi, continuano a segnare il passo in vista dell’accordo finale.
Il presidente Santos aveva risposto al cessate il fuoco fermando i raid aerei, ma, nel frattempo, era continuato uno stillicidio di scontri che mietevano vittime dall’una e dall’altra parte tanto che, già ad aprile, aveva revocato la moratoria sugli attacchi dell’aviazione. Ora, con questo raid sanguinoso, tutto torna in alto mare, anche se, sia le Farc che Santos continuino a mandarsi messaggi perché non siano interrotti i negoziati che pongano finalmente fine ad una guerra iniziata nel ’64, con un bilancio di oltre 200mila morti ed una lunghissima scia di violenze e distruzioni.
Il fatto è che una pace vera ha molti nemici in entrambi i campi: intanto la Colombia è l’ultimo Paese sudamericano dove la Cia e i suoi paramilitari dettano apertamente legge; lo fanno proprio con la motivazione di contrastare la guerriglia ed hanno stretto una serie di indicibili patti con i cartelli della droga per controllare quel commercio; la pace minerebbe i traffici da cui ricavano utili stratosferici “fuori bilancio” da intascare o destinare agli scopi più ignobili, oltre ad eliminare la motivazione ufficiale della loro presenza nel Paese.
Per le alte sfere dell’Esercito non è molto diverso: la fine dello stato di emergenza toglierebbe il potere con cui gestiscono a discrezione i territori, ed i proventi del fiume di droga che ne proviene. Anche per i grandi proprietari sarebbe una iattura, perché gli accordi già raggiunti a L’Avana prevedono una riforma agraria che limiterebbe il loro strapotere esercitato attraverso bande mercenarie di paramilitari. Inoltre, per diversi politici sarebbe un disastro, a cominciare dall’ex presidente Uribe e il suo partito, che ha fondato la sua fortuna (in tutti i sensi) sulla più totale sudditanza a Washington e ai suoi proconsoli locali.
D’altronde, persino fra le Farc c’è chi stenta ad accettare un processo di pace che riporterebbe il Movimento nell’alveo della lotta politica, togliendo potere a chi s’è abituato ad esercitarlo con le armi. E non parliamo della comprensibile difficoltà di reintegrarsi di chi ha combattuto troppo a lungo; per alcuni, troppo invischiati con i “narcos” con la scusa di finanziare la lotta armata, si tratterebbe di dare l’addio a soldi (tanti) e al dominio incontrastato sui territori controllati.
Come si vede, una pace cha ha molti, forse troppi nemici e che a L’Avana esita ancora dinanzi agli scogli finali, primo fra tutti il problema dell’amnistia per i crimini commessi durante la guerra. Che vengano amnistiati i reati relativi alla ribellione, sedizione e sommossa per le Farc, e quelli relativi a taluni abusi per l’Esercito è assodato, ma che fare per i tantissimi crimini di guerra e contro l’umanità? E la domanda è ancora più spinosa se a questi si devono aggiungere, come chiedono le Farc, anche quelli connessi al narcotraffico. E ancora, si chiede da più parti che all’amnistia accedano pure le bande paramilitari e i “narcos” a vario titolo coinvolti, dall’una e dall’altra parte.
Senza un accordo in questo senso, che appare un rebus irrisolvibile dal punto di vista giuridico oltre che essere un affronto per le tante vittime, è difficile che le parti accettino di negoziare la propria detenzione. E questo dà fiato ai tanti nemici della pace, che nella guerra trovano troppe convenienze.