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C’era una volta il sogno jugoslavo

C’era una volta il sogno Jugoslavo. A Kragujevac, uno dei suoi principali centri economici, sorgeva un’azienda pubblica che dava lavoro – indotto compreso – a una larghissima fetta di popolazione. Il suo nome era Zastava, produceva automobili e costituiva uno dei fiori all’occhiello della Repubblica Federale. Da esibire con orgoglio quale testimonianza che un sistema di sviluppo alternativo al liberismo, ancora sul finire del XX secolo, potesse esistere e prosperare.

Un giorno, tuttavia, iniziò a piovere dal cielo un fuoco distruttore. Correva l’anno 1999, gli aerei della Nato sganciarono una quantità tale di bombe da radere al suolo la Zastava, ponendo così la pietra tombale su di un’epoca destinata ad ingiallirsi sui libri di storia. Dalle ceneri di quella redditizia industria jugoslava nacque una nuova fabbrica, non più fiore all’occhiello nazionale bensì una delle tante sedi disseminate ad ogni latitudine di una multinazionale dell’automobile: la Fiat. L’ingresso della famiglia Agnelli nel cuore dei Balcani fu graduale; dapprima venne siglato un accordo con chi gestiva quel poco che rimaneva della Zastava devastata dai bombardamenti, in un secondo momento, a seguito di un accordo di joint-venture siglato tra Stato serbo e Fiat nel 2008, l’azienda torinese si appropriò di tutti gli stabilimenti di Kragujevac. La promessa di un investimento di 700 milioni di euro, più altri 200 statali tramite agevolazioni fiscali, sembrò sancire l’inizio di un nuovo periodo felice per la città serba.

A nove anni da quegli accordi e a 18 dai bombardamenti Nato, la realtà appare però ben lungi da certe euforie. Le speranze che l’avvento della democrazia e l’impulso capitalista producessero più ricchezza e migliorassero la qualità della vita sono state presto disattese. Oggi, negli stabilimenti di Kragujevac, dove si produce la nuova 500L destinata al mercato nordamericano, il lavoro degli operai rappresenta un nodo gordiano che Marchionne e soci non possono sottovalutare. Le nostalgie della vecchia Zastava, di quel sogno jugoslavo sono un sentimento che aleggia con sempre maggior vigore.

Questa vicenda rivela, nel suo complesso, i frutti amari della delocalizzazione industriale. Un sistema tipico del mercato globale, che fa dello sfruttamento della manodopera a basso costo una risorsa fondamentale delle aziende multinazionali. E spesso sono le armi l’anticamera della delocalizzazioni. Quei cacciabombardieri della Nato che nel 1999 attaccavano la Serbia provocarono, soltanto nella fiorente Kragujevac, un collasso sociale: per la distruzione della Zastava, almeno 100mila persone ebbero ripercussioni economiche, ci furono diversi morti e più di 200 feriti, oltre alla devastazione di 800 tra case, presidi sanitari e scuole. Forse in pochi a quei tempi, qui in Italia, sospettavano che dalla base di Aviano gli aerei diretti a bombardare la Serbia non rappresentavano soltanto uno scempio per la nostra dignità nazionale, ma anche un pericolo per i già tormentati operai degli stabilimenti di Mirafiori, Pomigliano, Melfi, Cassino, Termini Imerese. I quali, oggi, nella gestione delle vertenze con Fiat, devono tener sempre conto di un equilibrio reso fragile dalla minaccia dell’azienda – smentita solo a parole da Marchionne – di abbandonare l’Italia per stabilizzarsi in lidi dove la manodopera costa poco e gli orari di lavoro sono un “massacro”.

di Federico Cenci

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