Caso “Indesit”: e se parlassimo di socializzazione?
Nelle ultime settimane, mentre assistiamo impotenti ad un confusionario quanto sterile dibattito istituzionale, dedito a tutto fuorché ai reali problemi degli italiani, la situazione lavorativa nazionale sta continuando progressivamente ad aggravarsi. Le quotidiane statistiche (12,2% il tasso di disoccupazione a maggio 2013) snocciolate laconicamente su quotidiani e telegiornali in merito a chiusure, fallimenti e licenziamenti spesso seguiti da suicidi, sono arrivate ad essere considerate quasi normali, tollerabili, necessarie (“ce lo chiede l’Europa”) al punto da provocare niente più che indifferenza a chi non ne è toccato direttamente. Per molte famiglie invece, questi veri e propri bollettini di guerra significano la differenza tra una casa ed un pasto, e la miseria in strada.
Uno dei casi più eclatanti, e che rappresenta il totale fallimento delle politiche industriali e lavorative nazionali, è quello dell’Indesit, che alcuni mesi fa ha presentato un piano di “razionalizzazione” che prevede la chiusura di due stabilimenti e 1.425 licenziamenti su 4.300 lavoratori del gruppo in Italia: 25 dirigenti, 150 impiegati, 540 operai a Caserta, 480 a Fabriano, 230 a Comunanza (AP). In Italia dovrebbe rimanere soltanto la produzione ad alta specializzazione ed innovazione tecnologica, mentre il resto sarebbe interamente spostato in Polonia e Turchia. A tutto questo andrebbero aggiunte le probabili ricadute sulle imprese della rete componentistica, fondamentali per l’attività dell’impresa principale e che rappresentano il motore propulsore del modello distrettuale sul quale l’Italia si è retta negli ultimi 30 anni.
Per giustificare il drastico ridimensionamento, l’Indesit ha tirato in ballo la crisi globale, comunicando che in Italia, dove la società produce il 30% dei propri elettrodomestici, dal 2007 ad oggi i ricavi sono diminuiti del 25% (ma va notato che l’Indesit vende soltanto il 15% della sua produzione sul mercato nazionale). Che il settore degli elettrodomestici sia in crisi non è una novità, dato che dall’inizio della crisi ad oggi, pur rimanendo la “fabbrica d’Europa” del “bianco”, l’Italia ha visto la propria produzione passare da 30 a poco più di 14 milioni di pezzi, senza dubbio una pessima notizia considerando che si tratta del secondo settore manifatturiero dopo l’automobile, che occupa 130.000 addetti tra diretti ed indiretti, fatturando 12 miliardi di cui oltre il 60% dall’esportazione. Tuttavia dando un rapido sguardo al quadro complessivo dell’impresa, la situazione appare meno grigia di quanto la si voglia dipingere.
La “Indesit Company” occupa complessivamente 16.000 dipendenti in 16 stabilimenti in tutta Europa, di cui il 27% in Italia, e nel 2012 ha realizzato un fatturato di 2.886 milioni di euro, mentre l’utile netto ha superato i 60 milioni di euro, risultati entrambi in linea con l’anno precedente. Se a questo aggiungiamo una buona capitalizzazione ed un pressoché assente carico debitorio, appare evidente come l’Indesit non sembri assolutamente un’impresa in crisi. In più il mercato di riferimento, esaminato su scala globale, appare in espansione: dai 130 miliardi di dollari nel 2005 ai 180 che sono stati stimati per il 2013.
Sebbene il gruppo non possa essere messo esattamente sullo stesso piano di altri colossi del settore quali Whirlpool e General Electric (statunitensi), Bosch ed Electrolux (europee), e di qualche recente ingresso dal lontano oriente (Samsung e Toshiba), l’Indesit rimane pur sempre un’azienda florida, un marchio capace, non più tardi di pochi anni fa, di diventare il secondo in Europa nel mercato degli elettrodomestici bianchi, e di rappresentare ancora oggi, nonostante tutto, uno dei principali produttori. In base ai dati menzionati, la fantomatica crisi Indesit appare quindi sempre più strumentale.
Nelle ultime settimane sono stati numerosissimi i presidi dei lavoratori, gli scioperi e le proteste a suon di cortei e marce, per mostrare la contrarietà al piano di delocalizzazione presentato. In tutto questo i sindacati sono stati rapidissimi nel piazzare le proprie bandiere in prima fila nel corso delle manifestazioni operaie, ma al contempo non solo non sono stati in grado di proporre una pur minima soluzione, ma hanno prestato il fianco all’avversario, dimostrandosi capaci unicamente di disorganizzazione, di inutili luoghi comuni con il fine di arrivare ad un accordo/compromesso tra le parti con la mediazione delle istituzioni (tradotto: indorare una pillola che i lavoratori dovranno comunque ingoiare, volenti o nolenti). Le politiche lavorative regionali delle Marche (più di 700 i lavoratori marchigiani interessati dal piano Indesit), si sono dimostrate solo belle parole da campagna elettorale, alle quali è seguito un nulla di fatto, ed il tanto decantato “Modello Marche”, una volta esempio di avanguardia, sta miseramente crollando sotto i colpi di una tassazione insostenibile e di un mercato globale squilibrato, con l’alacre collaborazione di una classe politica e dirigenziale incompetente.
Ancora una volta, come nel caso dell’Alcoa e dell’Ilva, che operando in settori strategici per l’economia nazionale dovrebbero essere in aggiunta nazionalizzate, l’unica possibile soluzione è semplice e chiara, lineare quanto immediata: SOCIALIZZAZIONE.
L’Indesit Company va socializzata. Gli operai e gli impiegati, che in anni di lavoro e sacrifici hanno costruito un’impresa di successo, dimostrando pienamente come il legame tra lavoro e territorio, se correttamente impostato, possa dar vita ad un crescente circolo virtuoso e costituire il motore di un più avanzato sviluppo territoriale sul piano umano, sociale ed economico, devono entrare a far parte del processo decisionale dell’impresa e di partecipazione agli utili.
Solamente un regime di socializzazione permetterà al lavoro, non più oggetto ma soggetto della produzione, di liberarsi dal giogo del capitale, basato sullo schiavistico e ricattatorio meccanismo salariale, realizzando, tramite un’autentica responsabilizzazione fondata su una diretta quanto organica partecipazione alla gestione, agli utili, alla proprietà dei mezzi di produzione, quell’equità e quell’equilibrio in grado di instaurare realmente una vera giustizia sociale, inquadrata in un percorso di comunitario progresso materiale e spirituale, indirizzato verso il conseguimento del benessere della nazione.
Nell’attuale regime di stampo liberistico-predatorio, sostenuto e mosso solamente da principi di saccheggio, consumismo e schiavismo mascherati da progresso, prodotto di una globalizzazione neo-colonialista, non saranno possibili altre “soluzioni”, se non i palliativi che ben conosciamo e che anche l’Indesit stessa ha contemplato: licenziamenti, “razionalizzazioni”, delocalizzazioni. Il turbo-capitalismo del terzo millennio si sta avvitando su se stesso, preda e vittima dei suoi stessi principi costitutivi, del perverso meccanismo alla sua base. Questo sistema, morente e corrotto, sta esalando gli ultimi respiri, cercando di tirare a campare sulla pelle dei lavoratori, e più in generale degli stati nazionali, diretto ostaggio di meccanismi sovranazionali emanazione dell’alta finanza internazionale.
La ripartenza ed il progresso del nostro apparato produttivo, non potranno prescindere da una nuova concezione del lavoro e del lavoratore stesso, ma più in generale dei fattori della produzione e del meccanismo della loro interazione in vista del conseguimento di un preciso obiettivo finale.
Solo in questa nuova ottica sarà possibile concretizzare e sfruttare le enormi potenzialità delle forze nazionali, correttamente orientate ed inserite in un nuovo ordinamento imperniato sulla socializzazione economica, unica via per la rinascita del lavoro.