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Caporalato, gli schiavi dell’agricoltura

Del caporalato non si parla, se lo si fa è perché qualcosa di grosso è accaduto, perché vuol dire che qualcuno ci ha lasciato la pelle o qualcuno ha avuto il coraggio di denunciare. Quella del caporalato è una piaga purulenta alla quale si è tentato di mettere un freno, ma che a parte pallidi e tenui tentativi, nessun governo ha mai cercato di sconfiggere seriamente.

Eppure di caporalato si muore, si muore bruciati vivi nelle baracche nel tentativo di riscaldarsi, si muore annegati cercando un po’ di acqua fresca, si muore quando scoppia il cuore sotto il sole a 45 gradi.

Chi lavora nei campi in pieno agosto o nelle stalle in pieno inverno con temperature rigidissime non è un essere alieno, è qualcuno che ci permette di avere sulla tavola primizie e cibi, che consente all’ipermercato di avere sempre il banco ortofrutta ben rifornito.

Caporalato e sfruttamento

Il nome suona anche bene “lavoratori stagionali”, ma in realtà si dovrebbe leggere “schiavismo” o “para schiavismo” perché le condizioni nella quale si ritrovano nulla hanno a che vedere con la parola lavoro. Hanno un età che va dai 18 ai 60 anni, lavorano con la schiena piegata e la testa abbassata, con la pelle cotta dal sole e lo fanno per una cifra che va dai 25 ai 35 euro l’ora al giorno per giornate di lavoro che possono arrivare anche a 12 ore. Vengono pagati due euro l’ora quando va bene, perché quando va male questi disperati devono pagarsi anche il trasporto per arrivare al lavoro o quei giacigli improvvisati definiti con coraggio “alloggi”, con i soldi che tornano nuovamente nelle tasche degli sfruttatori.

12,3%, è un numero che dovrebbe far riflettere perché è la percentuale che si pensa essere quella dell’economia sommersa dell’agricoltura, con un volume di affari manovrato dalla “mafia verde” di circa 24,5 miliardi. Un’economia dove il razzismo non esiste perché non sarebbe produttivo, neri e bianchi allora sono sotto la stessa condizione: rumeni, polacchi, nigeriani, somali, tutto serve, tutto fa manovalanza.

Ghetti, quelli messi a disposizione dei migranti dai caporali, capanne di alluminio che diventano forni in estate e frigoriferi in inferno, materassi lerci, latrine per bagni, un fornelletto per cucinare. Ghetti che per estensione sono dei piccoli paesi dove la legge dello Stato si ferma all’ingresso. La legge che vige è quella del padrone, dove la violenza e la minaccia è l’antidoto ad ogni ribellione, uno Stato parallelo che sancisce la sconfitta delle istituzioni che non possono, non riescono, non vogliono fare nulla.

di Sebastiano Lo Monaco

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