Caos e terrore paralizzano l’Algeria
Abdelaziz Bouteflika, eterno presidente dal 1999, si candiderà per la quarta volta alle elezioni di aprile in Algeria. Ciò che risalta non sono i suoi 76 anni (non siano certo noi Italiani a poterci stupire), ma il fatto che la sua ultima apparizione in pubblico risalga al maggio del 2012 e un anno fa sia stato colpito da un ictus che l’ha costretto a una lunga degenza in Francia; per il resto solo due brevi Consigli dei Ministri (in sedia a rotelle) e rari e fugaci incontri con ospiti stranieri di provata amicizia. Sembra la riedizione delle mummie del Kremlino ai tempi dell’Urss, quando leader tenuti in vita a fatica, venivano mantenuti sulla scena fino a che le lotte di potere dietro le quinte non avessero sancito il vincitore.
Il fatto è che la momento l’Algeria non riesce ad esprimere un’alternativa. Il Paese galleggia sul petrolio ed ha un Pil (208 mld di $ nel 2012) più che ragguardevole per l’area grazie all’oro nero; nel 2012 è cresciuto del 4% e i risultati del 2013 (che tardano a circolare) dovrebbero comunque mantenere il trend. Certo, la disoccupazione è altissima, il 40%!, e chi può fugge in Francia o altrove; la corruzione, diffusa a tutti i livelli, soffoca qualunque attività (l’ultimo scandalo, a cui i gruppi di potere non hanno potuto mettere la sordina, riguarda la Sonatrach, il gruppo petrolifero di Stato).
È una situazione desolante per una Nazione che avrebbe le risorse per scuotersi e fare molto per ridurre le vaste sacche di povertà, per migliorare (e di tanto) il reddito pro capite di 5.379 $ l’anno, ma caratterizzato da grandi squilibri fra chi ha tanto e chi ha quasi nulla.
È la paura a tener tutto bloccato: la paura del caos che ha travolto gli altri Paesi del Nord Africa, Libia in testa. I militari, che in un modo o nell’altro son dietro al potere dai tempi dell’Indipendenza, nel 1962, vogliono mantenere tutto fermo, per non perdere i tanti privilegi, e loro carta è Buoteflika.
Il Presidente, sia come sia, ha ancora un certo consenso in Algeria: in molti gli attribuiscono il merito d’aver condotto il Paese fuori dal decennio nero della guerra civile, fra il 1999 e il 2002, con il suo fardello di violenze, distruzioni, crollo dell’economia e oltre 100mila morti. E anche d’aver saputo limitare (intendiamoci! Solo in parte, ma è già qualcosa) lo strapotere delle forze di sicurezza dopo la conclusione della crisi, e la limitazione alle libertà di stampa e d’espressione.
Inoltre, allo scoppiare delle primavere, e ai primi tumulti nelle piazze (sedati per altro a muso duro), ha saputo evitare altri problemi aumentando sussidi, regalie e stipendi, e varando provvedimenti popolari su scuole e ospedali.
Questo, e la consapevolezza di non aver alternative, gli assicura l’appoggio di almeno 30 fra i più di 40 partiti al momento presenti sulla scena, e dei maggiori sindacati, tutti con l’unica ossessiva preoccupazione di mantenere l’attuale sistema di potere, all’interno del quale ognuno occupa una comoda nicchia e gode di qualche privilegio. D’altra parte, l’opposizione, che è minoritaria ed anche spezzettata, non riesce a fornire un’alternativa che offra una minima credibilità. E anche se fra i militari, che sono sempre dietro ogni gioco di potere serio, si sono manifestate opposizioni ad una situazione senza sbocchi, il dissenso è stato liquidato con epurazioni.
È troppo forte la paura dell’ignoto. È troppo forte la paura di perdere antichi privilegi.
Così il vecchio Presidente è condannato a rimanere la facciata d’un regime imbalsamato, per garantire gli interessi di pochi gruppi (militari e aziende petrolifere in testa), e addormentare le proteste dei tanti. È amaro, ma come sempre i destini dei popoli sono condizionati dagli interessi di cricche abbarbicate al potere.
di Salvo Ardizzone