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Gaza e i suoi pescatori, storia di quotidiana Resistenza

Un vecchio proverbio recita: “In una città costiera non mancherà mai il cibo”. Questo non vale per Gaza e per i suoi pescatori, che non hanno alcun controllo sulle proprie acque territoriali e possono essere privati in qualunque momento del frutto della loro fatica, delle loro barche e, perfino, del diritto di uscire in mare per provvedere ai propri bisogni. I pescatori gazawi non possono superare il limite delle sei miglia nautiche, anche se le acque a sovranità palestinese vanno ben oltre. Ma già se si allontano oltre le tre miglia dalla costa, le navi da guerra israeliane cominciano a mitragliare i pescherecci causando quotidianamente morti e feriti.

Questo limite illegale è stato imposto dalle Autorità israeliane, nonostante gli accordi di Oslo abbiano fissato a circa 20 miglia dalla linea costiera il limite massimo di allontanamento e nonostante le 12 miglia sancite dall’Accordo Bertini, stipulato nell’Agosto 2002 tra le Nazioni Unite e Israele. A novembre del 2012, con la mediazione egiziana, è stato firmato un “cessate il fuoco” che riportava il limite di distanza da Gaza a sei miglia nautiche, ma Israele, firmatario dell’accordo, si rifiuta di rispettarlo e ci sono state da quella data migliaia di violazioni da parte israeliana.

Pescatori palestinesi vittime del regime israeliano

In conseguenza di ciò, i pescatori vengono quotidianamente arrestati, vengono loro confiscate le barche e le attrezzature, vengono feriti e uccisi. È importante notare che i pescatori sono costretti a sfidare il limite imposto da Israele, dal momento che lo sfruttamento e l’inquinamento delle acque lungo la costa rende il mare poco pescoso. Inoltre, in alcuni periodi, attivisti internazionali accompagnano i pescatori nelle loro uscite in mare, nella speranza di fungere da deterrente per gli attacchi dei militari israeliani.

Le navi militari israeliane secondo il Sindacato dei pescatori di Rafah, nel sud della Striscia, pattugliano il mare 24 ore al giorno, sette giorni su sette, con il pretesto della sicurezza e del contrasto al traffico di armi. Secondo quanto riporta il Palestinian Center for Human Rights (Pchr), dal novembre 2012, sono stati danneggiati centinaia di pescherecci palestinesi e più di 4mila pescatori hanno sofferto in condizioni di indigenza perché è stato loro negato di rifornirsi di carburante per le loro imbarcazioni.

Il gas di Gaza fa gola a Israele

È necessario ricordare che più di 75mila persone dipendono dalla pesca per la propria sussistenza e le condizioni imposte dall’occupante hanno portato a un considerevole peggioramento delle condizioni di vita di queste famiglie, oltre ad aver minato la base dell’economia palestinese. Mahfouz Al-Kabariti, coordinatore della Campagna di Solidarietà dei Pescatori nella Striscia di Gaza, sostiene che attaccare i pescatori nelle acque palestinesi è una pratica israeliana sistematicamente attuata sotto il pretesto della sicurezza. “La Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono considerati mercati per i prodotti israeliani; impedendo ai pescatori di Gaza di lavorare, i palestinesi dipenderanno dall’importazione israeliana”.

Al-Kabariti riferisce inoltre che i pescatori gazawi vivono sotto costante ricatto dei militari israeliani, che arrestano i loro figli e danneggiano le barche, al punto che gran parte del ricavato delle notti di pesca va a coprire le spese per le riparazioni delle attrezzature. Secondo alcuni analisti politici, questi attacchi continui ai pescherecci avvengono in relazione al fatto che sono stati scoperti dei giacimenti di gas naturale al largo delle coste di Gaza, e il governo di Tel Aviv ha tutto l’interesse di essere l’unico a beneficiare di queste risorse, in palese violazione della Risoluzione Onu 3005 che prevede che tutte le risorse naturali della Striscia di Gaza debbano ricadere sotto il controllo dei residenti. Come sempre, tutto ciò avviene in spregio a tutte le leggi e con il silenzio complice della Comunità Internazionale.

di Manuela Comito

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