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Brexit, un altro passo verso la dissoluzione dell’Unione europea

di Salvo Ardizzone

La vittoria dei “Leave” in Gran Bretagna era tutt’altro che imprevedibile e tanto meno frutto di un impulso improvviso dell’elettorato; è stato l’ultimo di una lunga serie di segnali sempre più forti che annunciano la dissoluzione della Ue; i motivi e le conseguenze della “Brexit” non sono fenomeni isolati che riguardano soltanto quel Paese, essi sono gli stessi di quelli che stanno ormai emergendo in tutta Europa. Non comprenderlo, impedisce di percepire cause e portata di una tendenza che travalica di molto la semplice uscita di un Paese dalla Ue.

Da decenni l’Europa ha imboccato una via perversa, lasciando la gestione ordinaria ad una burocrazia autoreferenziale (ma obbediente a chi ha maggior peso), abbandonando le scelte essenziali in politica estera a Washington e in economia alla Germania. Nessuna politica comune, nessuna leadership condivisa che la indirizzi, nessun progetto, solo aria fritta per coprire il vuoto.

Perché bisogna dirlo, magari sfatando luoghi comuni: la Ue non ha avuto – e non ha – una direzione; la Germania ha imposto le proprie convenienze, ma s’è guardata d’intestarsi una leadership quale che fosse perché, ottenuto ciò che le interessa, non ha mai avuto l’intenzione d’assumersi responsabilità politiche, badando solo a se stessa. In politica estera c’è stato il “liberi tutti”, con i Paesi che hanno seguito i propri interessi (vedi la sciagurata avventura in Libia di Francia e Regno Unito), salvo allinearsi tutti quando interessava a Washington (vedi la crisi ucraina e le sanzioni alla Russia).

Il risultato è da troppi anni sotto gli occhi di tutti: un ectoplasma politico prono agli Usa, che in economia s’è fatto imporre le visioni (e le convenienze) economiche di Berlino ed ha favorito a dismisura gli interessi della finanza sostenuti da Londra. Un sistema ipocrita e posticcio, privo di valori e scopi che non fossero gli interessi di pochi, lontano anni luce dalla gente, poteva solo fallire ed ha fallito sotto l’impatto delle prove a cui è stato sottoposto: crisi economica aggravata a dismisura dalle folli ricette imposte dalla Germania; crisi ucraina e contrapposizione con la Russia voluta dagli Usa con la sponda di Baltici e Polonia; crisi dei migranti, con la totale incapacità politica di dare risposte.

La lunga serie delle conseguenze (impoverimento della gente, disoccupazione, esplosione delle diseguaglianze e del disagio) ha prodotto un profondo senso d’insicurezza e la paura per un futuro che non si comprende; insicurezze e paure a cui né Bruxelles, né i vari Governi europei hanno saputo dare uno straccio di risposta. È stato il clamoroso fallimento dei partiti tradizionali, con le destre che hanno imboccato la via liberista che ha fatto più ricchi i ricchi e sprofondato tutti gli altri nel disagio, e le sinistre che hanno rinunciato al loro ruolo, assecondando quei poteri forti che avrebbero dovuto contrastare.

La gente, stretta in una crisi senza fine che non comprende e privata d’ogni riferimento, spinta da paura ed esasperazione, in mancanza d’altro ha seguito gli slogan rozzi dei populisti che additavano facili ricette. Questo è il quadro non solo del Regno Unito ma di tutta Europa.

Ma quali saranno le conseguenze della “Brexit”, l’ultima spallata, che segue le lacerazioni profonde della crisi economica e le paure generate (ed enfatizzate) dai migranti? Conseguenze non solo per la Gran Bretagna ma per tutta Europa.

Il Regno Unito ne esce frantumato, spaccato a metà fra i sostenitori del “Leave” e del “Remain”, ma questo è il meno, è lo Stato che rischia d’andare in pezzi. La Scozia, che ha votato in massa per il “Remain”, intende riproporre il referendum sull’indipendenza stavolta con assai maggiori probabilità, e anche se è assai dubbio che sia concesso, le tensioni saliranno alle stelle. In Ulster (anche qui ha trionfato nettamente il “Remain) s’è riaccesa la volontà unionista con l’Irlanda, ed il Sinn Fein si sta già preparando ad una battaglia politica sempre più popolare. La stessa Londra si agita, proponendo un’improbabile adesione della città alla Ue, per non perdere gli enormi benefici che le derivano. A testimonianza della frattura nell’elettorato, gli oltre 3 milioni di firme raccolte in poche ore da una proposta di legge, d’assai dubbia accoglienza, perché si ripeta il referendum.

Ma è l’economia che ne uscirà in pezzi: il Regno Unito s’è posto come ponte finanziario con la Ue; finanza e servizi contano per quasi il 12% del Pil, sviluppano 190 Mld di sterline con un surplus di 77 Mld e impiegano 2,2 milioni di addetti, per i due terzi a Londra. È la spina dorsale del Paese che rischia ora di spezzarsi all’improvviso: Hsbc, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citygroup, Deutsche Bank e ancora Rbs, Barclays e addirittura i Lloyds, si stanno preparando a delocalizzare a Francoforte, Dublino o Parigi. Anche il settore manifatturiero medita di emigrare, con Rolls Royce, Nissan, Easyjet, Tata, Bmw ed altri ancora in procinto di chiudere impianti per spostarli sul Continente. E le regole liberiste che li hanno attirati, sono le stesse che adesso permettono di buttare sulla strada la gente a decine di migliaia.

Un disastro che cade su un Paese fragile malgrado gli strombazzati 7 anni di crescita (il debito, fra Stato, imprese manifatturiere e famiglie supera il 300% del Pil), costretto a prendere in prestito ogni anno il 5% del proprio reddito all’estero; con la sterlina in caduta libera (mai così debole dal 1985) sarà difficile trovare chi lo finanzi. Per i ceti più deboli che hanno ascoltato le sirene del “Leave”, in un quadro politico d’acceso liberismo sarà tremendamente dura.

Il motivo è semplice, uscendo dalla Ue la Gran Bretagna perde la sua attrattiva: essere il tramite con il più grande mercato mondiale senza dover sottostare alle sue regole. I grandi investitori lo sanno bene, a partire dalla Cina, e si stanno riposizionando per avere una base conveniente all’interno dell’Europa.

Il peso politico del Regno Unito è grandemente ridimensionato, e lo stesso rapporto speciale con gli Usa ne esce male; l’interesse di Washington era di avere un alleato/suddito fedele che fosse la sua mano nella Ue. Gli Usa non vogliono la disgregazione della costruzione europea, perché dovrebbero trattare bilateralmente con tutti invece di influenzare solo i più importanti e, al di là delle rassicurazioni di facciata, per tutta la campagna referendaria hanno detto chiaro che non hanno alcun interesse ad un Regno Unito tornato un’isola a sé.

Anche la politica interna ne esce terremotata: Cameron dimissionario, con i Tory spaccati e un Boris Johnson che punta a Downing Street sulle macerie del suo partito. Né il Labour è messo meglio, con Corbyn sotto accusa per una campagna referendaria sotto tono; certo, per lui è stata dura difendere questa Ue, ma è stata un’enorme occasione perduta per gridare quale Europa chiedere.

Sia come sia, ora si apre il dopo: è stato un referendum consultivo ed ora il risultato va ratificato dal Parlamento e notificato a Bruxelles; l’articolo 50 del trattato di Lisbona, che dice assai poco sulle procedure, concede due anni rinnovabili per rinegoziare i rapporti. Anche se il Commissario per i cruciali mercati finanziari, Jonathan Hill s’è subito dimesso, Londra sembra intenzionata a tirare per le lunghe, chiedendo di aprire i negoziati sugli oltre 200 trattati che la legano alla Ue, ma i vertici europei vogliono chiudere in fretta per fare chiarezza e limitare i danni.

In Europa s’è aperta una partita assai complessa: tutti sono consapevoli che la sopravvivenza della Ue, semmai possibile, è attaccata a un filo e gli equilibri precedenti sono saltati. L’uscita del Regno Unito rende assai più debole la posizione di Parigi che non ha più il contrappeso di Londra per bilanciare lo strapotere di Berlino; a parte una caratterizzazione nazionalista di facciata a beneficio dell’elettorato che guarda alla Le Pen, è prevedibile una sterzata francese verso Washington per averne l’appoggio.

La Germania sa che adesso non ha più rivali di peso, e la politica di opposizione alla Russia ha perso con Londra il suo maggiore sostenitore; tuttavia, Berlino non intende spendersi politicamente adesso, riservandosi, come sempre, d’intervenire sui dossier che più le interessano.

Sia come sia, gli Stati sembrano aver preso in mano l’emergenza, giudicando fallimentare la gestione di Juncker, il Presidente della Commissione, che di fatto è stato messo da parte. Nella concitazione sembra sorgere un direttorio che al tradizionale asse Berlino-Parigi aggiunge Roma, ma le posizioni sono tutt’altro che univoche: Parigi dà voce ai più e pretende una pronta uscita della Gran Bretagna, come preteso dal Parlamento europeo, ma la Merkel vuole prendere tempo. Nel frattempo, sorge l’idea di un’Europa a cerchi concentrici, con i Paesi fondatori al centro.

In poche parole, fra rabbia e paura, la confusione è al massimo, aggravata dalle richieste di chi, come l’Italia, vuol cogliere l’occasione per far passare finalmente i dossier che più le stanno a cuore (migranti e vincoli di bilancio), e dall’esito delle elezioni in Spagna, che potrebbero originare un nuovo terremoto.

L’abbiamo detto più volte: la Ue è una creatura posticcia prona ai più forti; ha generato sperequazioni enormi e distrutto, insieme alle economie, la vita della gente in troppi Paesi. Ha favorito finanza, banche e poteri forti e gli interessi di qualche membro più potente a scapito degli altri, trascinando tutti in scelte suicide dettate dall’esterno.

Ma la contesa sostenuta dai “Leave”, come pure quelle portate avanti dai tanti populismi fioriti in Europa sulle macerie dei partiti tradizionali, non ha nulla a che vedere con la tutela delle fasce più disagiate, con la lotta alle diseguaglianze, alle ingiustizie sociali, con l’affermazione di una sovranità nazionale autentica.

Nel deserto di valori veri, i populismi hanno levato le loro rozze bandiere e la gente le ha seguite in mancanza d’altro. Non è l’attuale Ue l’Europa che vogliamo, ma di certo neanche l’ottuso trionfo di egoismi, di paure, di nazionalismi beceri e scomposti sostenuti dai vari Farage, Le Pen, Salvini & C. L’Europa dei Popoli è tutt’altra cosa.

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