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Il braccio violento delle istituzioni, tra violenze ed omertà

Parafrasando ciò che diceva Fëdor Dostoevskij in Delitto e castigo, possiamo affermare che “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue forze dell’ordine”. Vien da chiederci quale immagine di civilizzazione offre il nostro Paese con le cariche indiscriminate della polizia, le violenze sui manifestanti, gli episodi disgustosi ripresi da videocamere e telefonini nel corso di manifestazioni per il diritto alla casa o contro la Tav?

E’ questo il tipo di comportamento che emerge abbastanza regolarmente durante le manifestazioni: le violenze gratuite della polizia. Certo le manifestazioni possono comportare anche violenze non volute, che, nella confusione generale, potrebbero essere anche incidenti. Ma tali incidenti si ripetono con troppa regolarità in ogni manifestazione. E che dire dei casi di brutalità nei confronti di arrestati, quando ci scappa perfino il morto?

Cosa dire dei cittadini morti quando erano in custodia delle forse dell’ordine? Non solo Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, casi che tutti conoscono, ma anche Gabriele Sandri, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Brunetti, Riccardo Rasman. Tutti giovani le cui vicende sono unite da un filo comune: il disprezzo nei confronti di alcune vittime considerate drogati o balordi, un atteggiamento tenuto con metodo quasi a denigrare chi ha subìto gli abusi e renderlo “meno vittima” agli occhi dell’opinione pubblica.

Ma non basta. I casi sarebbero stati archiviati con la fredda versione ufficiale dell’incidente, “deceduto durante un controllo della polizia”, se i familiari delle vittime, come la mamma di Federico Aldrovandi o la sorella di Stefano Cucchi, non si fossero battuti per la verità, bucando muri di omertà, tentativi di depistaggio, messi in atto da uomini di stato.

Ma non basta. Alla violenza si è aggiunta l’arroganza! Federico Aldrovandi è morto all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara. La mamma, Patrizia Moretti, dopo anni di ricerca della verità, ha potuto vedere finalmente puniti gli uccisori del figlio. Ma ha dovuto assistere anche ad un indegno episodio. Il 29 aprile a Rimini durante il congresso del sindacato autonomo di polizia (Sap) tre dei quattro poliziotti condannati in via definitiva per la morte di Federico Aldrovandi sono stati salutati con un applauso durato diversi minuti, gesto così commentato da Patrizia Moretti: “È terrificante, mi si rivolta lo stomaco. Cosa significa? Che si sostiene chi uccide un ragazzo in strada? Chi ammazza i nostri figli? È estremamente pericoloso”. Nel marzo del 2013 a Ferrara un altro sindacato di polizia, il Coisp, aveva organizzato una manifestazione di solidarietà agli agenti, sotto le finestre degli uffici comunali in cui lavora la mamma di Federico Aldrovandi.

E’ questo il braccio violento delle forze dell’ordine, quello di cui il recente libro di Marco Preve, “Il partito della polizia, il libro sul lato violento delle forze dell’ordine” svela storie inedite di torture, di water boarding, di squadrette di torturatori comandati da funzionari soprannominati De Tormentis.

E’ pur vero che accanto a queste pagine nere della storia della polizia, emergono esempi di agenti al servizio della società a tal punto da mettere a rischio la  propria vita. Basti per tutti ricordare Roberto Mancino, l’investigatore della Polizia di Stato che per primo denunciò quanto stava accadendo nella Terra dei Fuochi, che l’ha ricambiato col suo veleno, mentre taceva chi aveva il dovere di parlare.

Ma perché questo braccio violento delle forze dell’ordine, che i vertici della polizia usano cinicamente per rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei politici, per poi scaricare il malcapitato agente ripreso da un telefonino definendolo tuttalpiù un “cretino”.

Dove è finito l’addestramento, fondamentale per formare in modo adeguato i reparti incaricati di mantenere l’ordine pubblico secondo regole civili, e non militari? Che formazione ricevono i “celerini” dai quadri intermedi della polizia? Non sono forse i principi di violenze indiscriminate nel disprezzo totale dei cittadini? Quanto conta la concorrenza tra polizia e carabinieri nell’espletare con successo il compito assegnato, costi quello che costi?

Mentre i magistrati non hanno mai il coraggio di fare luce anche sui casi più gravi e mandano regolarmente assolti poliziotti e carabinieri anche nel caso di omicidi, per la collusione fra le due corporazioni, i mass media si limitano a seguirli per pochi giorni, non affrontando serie inchieste che possano incidere sui politici e opinione pubblica.

Sta di fatto che le forze dell’ordine, in Italia come in altri Paesi, stanno assumendo sempre di più un ruolo di esercito urbano per metodi d’ingaggio, prerogative, violenze sui fermati, che diventano “prigionieri non convenzionali”. Chi manifesta per difendere i propri diritti è un nemico e va umiliato anche se è inerme a terra e con le mani alzate. Chi è arrestato diventa un prigioniero non convenzionale che va punito fisicamente e moralmente. Picchiano senza pietà: indossano la divisa della polizia, ma provengono dall’esercito. Precisamente: dalle forze speciali inviate sui fronti di guerra della Bosnia, dell’Iraq e dell’Afghanistan. “Bisognerebbe addestrarli per spiegare loro la differenza tra essere un poliziotto ed essere un soldato”.

Abbiamo idea delle condizioni nelle quali i “celerini” arrivano in piazza a “difendersi dal nemico”? Siamo sicuri che non facciano uso di sostanze eccitanti come caffeina, alcool o droga? E quando alcuni agenti si scatenano, nessun numero identificativo, nessun segno di riconoscimento personale. Nei rari casi in cui qualche poliziotto finisce sotto processo per un caso del genere, non si vede mai al suo fianco l’ufficiale che comandava il suo reparto. Figuriamoci se si trova un magistrato che abbia il coraggio di andare al di sopra di qualche brigadiere! Ricordiamoci del sig. Gianni De Gennaro, che  dopo i fatti di Genova 2001 ha fatto una luminosa carriera fino ad essere  nominato presidente di Finmeccanica.

In ultima analisi la responsabilità rimane ai politici, che rifiutandosi anche solo di mettere in discussione il tema dei numeri identificativi sui caschi e in generale sugli agenti, hanno dato carta bianca al loro braccio armato, pur di far tacere la piazza. E’ il messaggio di impunità, della copertura politica delle violenze nelle piazze e nelle carceri.

di Cristina Amoroso

 

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