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Violenza sulle donne – Parte prima

Violenza sulle donne – Sul tavolo del mio salotto, dentro a una cornice ammaccata, c’è la foto di mia madre. È uno scatto di tanti anni fa, quando lei era poco più che ventenne. Io sarei nata qualche anno dopo, ma lei era già sposata. Suo marito non era un uomo perfetto. Mio padre era di poche parole e molte urla. Usciva di casa presto e rientrava quando era stanco delle chiacchiere giù al bar. Perché mia madre non lo abbia mai lasciato, lo capisco solo ora. Il motivo era sua figlia. Ci sono quelli che hanno figli e quelli che non ce li hanno. E lei aveva me. Io, invece, non ho figli.

A lui i miei genitori non sono mai piaciuti. Già da prima del nostro matrimonio, quando parlava di mia madre, si augurava che io non diventassi come lei. Non ho mai capito che cosa intendesse dire, ma mi spaventava l’odio con cui parlava di lei. Quando mia madre è morta, si è infuriato perché mi ero vestita di nero per andare al suo funerale. Mi ha strappato la camicia di dosso e ha urlato. Ha sbattuto con forza sedie e tavolo, tanto che i nostri vicini hanno bussato alla nostra porta per capire se andava tutto bene. Io mi ero chiusa in cucina e non ho visto le loro facce mentre lo pregavano di non farmi del male. Poi la porta di casa si è chiusa, lentamente, quasi senza fare rumore. Sono uscita da lì dopo diverse ore. Lui stava dormendo nel nostro letto e per non svegliarlo mi sono coricata sul divano in salotto. Saranno passati dieci minuti, che lui è venuto a prendermi. Mi ha tirata forte per i cappelli e mi ha trascinata fin dentro al letto. Quello era il mio posto e non voleva sentirmi piangere, credo che abbia detto.

Mi ha sposata che ero una ragazzina, non avevo ancora compiuto vent’anni. Non mi ha mai chiesto se lo volessi sposare, si è limitato a dire che lo avremmo fatto a fine primavera di quell’anno. Quando sono andata a vivere nell’appartamento che i suoi gli avevano lasciato, non c’era spazio per le mie cose. Casa nostra non è molto grande. Non ho un armadio tutto mio. Tutto quello che possiedo è contenuto in un mobile a cassettoni in corridoio.

Quando lui esce di casa, chiude la porta da fuori. Resto rinchiusa lì fino a che lui non torna. All’inizio mi ero lamentata, o meglio, gli avevo chiesto spiegazioni. Poi ho smesso di chiedere, senza aver ottenuto risposta alcuna.
Resto rinchiusa qui senza telefono, senza vedere mai nessuno. È allora che vado nel mobile in corridoio e dal primo cassettone tiro fuori la foto di mia madre. Passo le mie giornate insieme a lei, la porto di stanza in stanza mentre pulisco, cucino e stiro. È una buona giornata se lui non si prende dietro il telecomando. Allora mamma e io possiamo guardare la tele insieme. Quella foto mi è caduta dalle mani decine di volte. Quando sento che lui sta aprendo la porta di casa, corro a nascondere mamma tra i miei vestiti. Se lui la vedesse, sono certa, strapperebbe la carta dove lo scatto l’ha immortalata.

Quando sono sola con mamma sono felice. Mamma e io stiamo bene assieme, non litighiamo mai. Sono sicura che avrebbe preferito una vita diversa per me, ma lei non mi rimprovera per questo e ascolta tutto quello che io le dico. Da piccola mi piacevano i libri, ma ho lasciato la scuola prima di diplomarmi. Adoravo leggere. In questa casa ci sono pochi romanzi e io non faccio altro che rileggerli. Leggo sempre a voce alta. Anche a mamma piacciono i libri.

Ma “ben presto la realtà ci toglie ai sogni dorati e incomincia la prosa della vita”, ha scritto Alfieri, e a me pare che quelle parole le abbia scritte per parlare di me e di mamma. La prosa della mia vita è facile da raccontare. Aspetto che lui esca per sentirmi tranquilla. Tutto qui. La cicatrice che ho adesso sulla mia fronte, sta lì a ricordarmi che non è facile toccare il fondo. E non è nemmeno senza dolore che mi impongo di stare con lui.

Quasi sempre, quando entra in casa, mi trova vicino al mobile con i cassettoni e si arrabbia perché ho paura di lui. Mi si avvicina lentamente e quando i nostri corpi ormai si toccano, lui continua a camminare. Con il busto mi spinge verso la parete e non si ferma prima di avermi messa all’angolo. Poi mi afferra l’avambraccio e lo stringe con tutta la sua forza, piegandolo con rabbia, fino a quando io non sono costretta a inginocchiarmi davanti a lui per evitare che mi rompa il braccio. Ho capito che a lui piace mettermi in ginocchio e lo assecondo ancora prima che lui mi ci costringa in quel modo. Ma devo stare attenta, se lo anticipo troppo, mi prende a schiaffi perché dice che lo sto prendendo in giro. In tutto questo lui mi parla e mi mi vomita addosso parole che io non sono disposta ad ascoltare.

Il dolore fisico, credetemi, non è il peggio. Non dico che sia piacevole, semplicemente è passeggero. Dell’altro male non posso parlare, perché non lo capireste e perché non lo so spiegare. Riesco solo a dire che, ogni volta, c’è qualcosa che si accartoccia dentro di me e che non si rilassa mai. Mai si distende e riacquista la sua forma iniziale. Il mio orgoglio non avrà mai più la forma rotonda che quelle tre O gli regalano. Infondo siamo in tante a vivere senza dignità. Ieri ho visto la tele con mamma. Dicevano che le donne hanno celebrato le loro feste indossando tutte vistosi tacchi a spillo rossi. Si sono spalmate abbondanti rossetti e hanno voluto così ribadire che loro sono le sole proprietarie dei loro corpi e che la violenza sulle donne è una cosa molto brutta. E hanno ragione, non immaginano quanto.

Immagino io, invece, che quella protesta sia fatta per salvare le donne come me. Quelle disgraziate che avevano paura del mostro sotto al letto e non si sono opposte quando il mostro è uscito da là sotto e gli si è coricato accanto. Ho visto la vostra protesta scanzonata, colorata e modaiola e quasi mi sento meglio. In fondo non c’è nulla di male a mettersi in mostra: la bellezza è donna e la donna, così l’hanno creata, è da sempre una donzelletta che “mira ed è mirata, e in cor s’allegra”.

Mia madre, però, sembra non capire che centrino tutte quelle minigonne e tacchi a spillo quando si protesta contro stupri, percosse e femminicidi. Ma lei che ne può sapere? Lei è una donna del secolo scorso e non riesce a capire quanto sia difficile attirare l’attenzione su cose tanto importanti, senza mostrarsi in abitini sexy. Lasciatemela mettere dentro al mobile. Tra i miei vestiti non troverà niente di malizioso e la rabbia le scenderà per certo.

di Giovanni Rodini

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