Australia, rifugiati barricati nel centro dell’isola di Manus
Centinaia di rifugiati si sono barricati senza cibo né acqua, rifiutandosi di lasciare il controverso centro di detenzione per profughi nell’isola di Manus, chiuso martedì scorso dopo essere stato dichiarato “illegale e incostituzionale” dalla Corte Suprema della Papua Nuova Guinea.
Il primo punto da comprendere nelle migrazioni bibliche del nostro tempo è che i richiedenti asilo e i migranti per motivi economici rappresentano un numero enorme in tutto il mondo. I tre punti focali sono con ogni probabilità il confine fra Stati Uniti e Messico; il mar Mediterraneo in Europa e il mare che divide l’Australia dall’Asia sud-orientale. Le persone povere o perseguitate cercano di raggiungere gli Usa, l’Europa o l’Australia. Ogni altra nazione di transito è considerata un passaggio temporaneo.
Per quanto riguarda l’Australia, le sue politiche dell’immigrazione sono diventate sempre più restrittive e, oltre il piccolo numero di rifugiati accettati attraverso i canali delle Nazioni Unite, per le altre migliaia di persone che cercano di attraversare il mare in maniera illegale, il Governo di Canberra ha concepito una “soluzione” per tenerle sulle coste indonesiane: impediscono ogni possibilità anche solo di fermarsi a Sydney, Melbourne o Brisbane. I nuovi arrivi vengono portati sulla remota isola papua di Manus e da lì rimandati indietro alle nazioni di origine. Se tuttavia sono davvero dei rifugiati, a loro viene promessa la possibilità di sistemarsi in Papua Nuova Guinea, che viene a trovarsi ora in una situazione difficile, pervasa dalla corruzione e spesso dipendente dagli aiuti australiani. Il centro di detenzione dell’Isola di Manus è stato aperto nel 2001, con la cosiddetta Pacific Solution di John Howard, primo ministro australiano, una politica di dissuasione dei richiedenti asilo, chiuso nel 2008, poi riaperto nel 2012 è arrivato a contenere più di mille rifugiati nel 2016.
Il 26 aprile del 2016 la Corte Suprema della Papua Nuova Guinea (Png) ha stabilito che la detenzione nell’isola di Manus, appartenente alla Png, da parte dell’Australia è illegale e deve finire. Il verdetto rileva infatti che essa viola la costituzione del Paese. La risposta del ministro per l’Immigrazione australiano, Peter Dutton è stata: “La decisione della Corte Suprema della Png non cambierà la politica australiana di detenzione extra-territoriale”.
A distanza di più di un anno dal verdetto, Australia e Png stanno ancora cercando di chiudere il centro. Circa 600 detenuti stanno sfidando i tentativi di chiudere il campo, affermando che temono rappresaglie violente dalla comunità locale e che la chiusura del centro vieterà loro l’accesso all’acqua, all’elettricità e alla sicurezza. La scorsa settimana sono stati ritirati i generatori, tagliati i tubi principali nel centro che manca di acqua e di potere. “La gente è in ansia, stressata ed molto ansiosa”, ha riferito il rifugiato sudanese Abdul Aziz alla Reuters.
Alla notizia che avrebbero tagliato le utenze, i richiedenti asilo hanno iniziato a raccogliere l’acqua piovana. La situazione minaccia anche di smorzare il morale dei detenuti, quasi tutti colpiti da problemi di salute mentale, secondo una relazione delle Nazioni Unite del 2015. Senza i cellulari, che sono una linea di salvezza per questi uomini, i rifugiati sono perduti, perché sono isolati completamente ed hanno bisogno di sapere cosa succede nell’isola oltre a restare in contatto con le loro famiglie.
Il premier australiano Julie Bishop ha dichiarato che gli uomini dovrebbero spostarsi in nuovi centri, aggiungendo che l’Australia intende sostenere l’immigrazione con un valore di 250 milioni di dollari in cibo e sicurezza per i prossimi 12 mesi. Il trasferimento degli uomini è stato progettato come misura provvisoria, per consentire agli Stati Uniti di completare la verifica dei migranti nell’ambito di un accordo sui rifugiati, in quanto l’Australia spera di non essere più responsabile della detenzione di quasi 1.400 richiedenti asilo che sono stati classificati come rifugiati.
di Cristina Amoroso