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L’Ecuador alle urne. Correa verso la conferma

di Fabrizio Di Ernesto

Il 2013 si annuncia, politicamente parlando, un anno molto importante per la regione indio-latina.

Se a tenere banco sono soprattutto le condizioni di salute del caudillo venezuelano Hugo Chavez, sono diversi i paesi che si recheranno alle urne per eleggere il nuovo presidente.

Tra questi il più importante è sicuramente l’Ecuador dove si voterà il 17 febbraio, con il presidente uscente Rafael Correa grande favorito; è perfino riuscito a far sì che l’Assemblea nazionale lo sollevasse dai suoi poteri cedendoli al vicepresidente Lenín Moreno per dedicarsi a tempo pieno alla sua campagna elettorale e a quella del suo partito Alianza Paìs. Una strategia quanto mai vincente visto che gli ultimi sondaggio gli attribuisco la vittoria già al primo turno con oltre il 65% dei voti.

Il primo degli sconfitti dovrebbe essere l’imprenditore Guillermo Lasso, dato intorno al 10% esponente del partito conservatore Creando Oportunidades.

Percentuali risibili o quasi per gli altri candidati, quasi tutti già sconfitti in passato da Correa.

Il centista Lucio Gutierrez, già presidente tra il 2003 ed il 2005 destituito da una vera e propria rivolta popolare ed ora portabandiere del movimento Partito Sociedad Patriotica, non dovrebbe arrivare nemmeno al 5%, facendo poco meglio di Alvaro Noboa, ricco imprenditore bananiero, che per la quinta volta di candida alla presidenza del paese, questa volta per la cronaca, supportato dall’ultra liberista Prina, Partito renovador institucional accion nacional.

Correa, al potere fin dal 2006, è ora in corsa per il terzo mandato consecutivo e punta sui buoni risultati ottenuti in questi anni in fatto di salute, sovranità popolare e riduzione della povertà, anche se le opposizioni continuano a rimarcare i suoi rapporti  con i potenti mezzi di comunicazione privati del paese.

Prima dell’avvento di Correa e del suo Socialismo del Buen Vivir quello andino ero uno stato in ginocchio.

Una grave crisi economica scatenata principalmente dall’assunzione della classica ricetta neoliberista ovvero privatizzazioni selvagge, flessibilizzazione estrema del lavoro, svalutazione dei salari, a cui si andarono ad aggiungere la crisi finanziaria dell’epoca e il drastico calo del prezzo del petrolio di cui l’Ecuador è da sempre grande esportatore, aveva infatti provocato pesanti ripercussioni sulla vita della popolazione.

Tra il 1995 ed il 2000 i poveri divennero quasi dieci milioni ed il Pil crollò di circa un terzo; a complicare il tutto arrivò poi la dollarizzazione del paese avvenuta nel 2000 per mano del governo guidato da Jamil Mahuad. Facile intuire che l’abbandono della propria moneta nazionale, nel caso ecuadoriano il Sucre, rese lo stato andino maggiormente vulnerabile oltre che esposto ai capricci del capitale transnazionale.

In base ad uno schema ben consolidato, e in parte applicato anche in Italia, sono poi arrivate le direttive del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale che hanno obbligato il paese a pagare poco meno di 76 miliardi di dollari di debito estero; debito che però aumento presto passando da 6.633 a 13.564,5 milioni di dollari per effetto degli interessi e della persistente recessione economica che faceva contrarre il Prodotto Interno Lordo.

A quel punto ci furono le rivolte di piazza contro Gutierrez e l’ascesa di Correa. Questi laureatosi in economia negli Usa, e quindi ben avvezzo a certi strumenti finanziari, prendendo spunto da alcune politiche del venezuelano Chavez attuò un programma di governo basato su riforme radicali del sistema politico ed economico, tanto che, numeri alla mano, nel 2012, l’Ecuador è risultato essere la seconda economia più dinamica della regione dietro il Perù, con un Pil in costante crescita nonostante la grave crisi economica che attanaglia gran parte del mondo occidentale e si riverbera sull’intero complesso dell’economia mondiale.

Correa durante i suoi mandati ha portato avanti una grande battaglia contro la povertà attraverso il “Plan Nacional del Buen Vivir”, avendo come principio e fine dell’attività economica non più il profitto ma l’essere umano. I risultati registrati da tale politica hanno, in primis, visto la povertà estrema scendere al 10% nel 2012, a fronte del 38% che si registrava ancora nel 2006 al momento dell’ascesa al potere dell’attuale presidente. Inoltre lo stato andino, utilizzando sapientemente la leva della spesa pubblica, è riuscito a stimolare l’economia e affrancarsi dalla dipendenza da esportazioni di petrolio.

Risultati che non possono non tirare la volata al presidente uscente.

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