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Argo, il trionfo della falsità

Argo – Una fantastica pellicola pre-natalizia arricchisce le sale di tutta Italia e insegna all’ignaro spettatore una pagina della storia recente. Insegnamento in stile hollywoodiano, sia ben inteso.

Dire falsità e farle passare come vere? Non c’è posto migliore di Hollywood! È lo stesso produttore “vero” Lester Siegel, impersonato dall’attore Alan, del film “finto” a condividere simili perle di saggezza con gli spettatori, che già ne sono consapevoli e segretamente ammirano il senso di autocritica del bizzarro e stravagante stato nordamericano, che nonostante le sue contraddizioni e i suoi problemi interni, insegna civiltà e democrazia a un mondo che paradossalmente attende istruzioni.

Come dare torto, quindi, al loquace “produttore” che nel film accetta di mettere su una finta pellicola destinata a liberare i sei dipendenti dell’ambasciata statunitense in Iran scappati durante l’invasione dell’ambasciata da parte degli studenti all’inizio della Rivoluzione Islamica e rifugiatisi nella casa dell’ambasciatore canadese? Hollywood è da sempre una delle più efficienti macchine di propaganda al mondo, organizzazione capace come poche di distorcere la realtà e manipolare le menti impreparate con avanzate tecniche di PNL, con registi capaci di riprodurre e inventare ogni tipo di mostruosità, dalla presunta crudeltà dei pellerossa assetati del sangue del civilizzato “uomo bianco” fino alla montatura del terrorismo islamico dei giorni nostri che avrebbe come causa principale la loro invidia della nostra minigonna.

Il film, diretto e interpretato da un bravo Ben Affleck, inizia in grande stile, perfino concedendo agli Iraniani brutti, sporchi e cattivi una virgola di ragione e comprensione. Dopotutto hanno pur sempre dovuto subire sulla loro pelle la spregiudicatezza e la disumanità delle politiche estere statunitensi, anno dopo anno, presidente dopo presidente, elezione-farsa dopo elezione-farsa. Un paio di minuti di digressione storica in cui si menziona en passant il colpo di stato anglo-americano che ha rovesciato il democraticamente eletto Mossadegh a causa della sua malsana iniziativa di nazionalizzare la compagnia petrolifera AIOC, fino ad allora di proprietà inglese. Gli Stati Uniti, allora guidati dal segretario di stato Foster Dulles e rappresentati all’estero dalla CIA nella persona di Kermit Roosevelt (se il cognome suona familiare è perché era il nipote di Theodore e il cugino di Franklin, nientemeno), non potevano assistere impotenti all’impoverimento dell’Iran grazie alle sanzioni economiche imposte dagli inglesi, e tanto meno alle apocalittiche politiche di Mossadegh di neutralità nei confronti dei due blocchi della guerra fredda e poco rispetto per il libero mercato. Tutti validi motivi per re-instaurare il regno della famiglia Pahlavi che ha affamato la popolazione per decenni, ma non altrettanto validi perché gli Iraniani serbassero rancore dopo quasi vent’anni passati ad ammirare gli sfarzi dello scià.

Il breve excursus dà una sommaria idea delle possibili ragioni per cui agli Iraniani sia venuto in mente di occupare l’ambasciata americana, il più grande quartier generale della CIA nel Medio Oriente di allora, ma pochi minuti non sono abbastanza per far rivivere allo spettatore la sofferenza di quegli anni, il dolore che piano piano, maturando, è diventato rancore, tanto da far desiderare una chiusura definitiva delle relazioni diplomatiche iraniano-americane.

Se all’inizio il film ha dato l’impressione di voler essere un fedele racconto della politica estera degli Stati Uniti e della situazione che ha portato alla rivoluzione in Iran, fa presto a tornare sui binari della propaganda occidentale che deve sempre e per forza far apparire lo sceriffo del mondo come grandioso anche quando commette errori, perché di questo si tratta, di errori, non di una politica criminale decisa a tavolino, incurante che forse dall’altra parte ci sarebbero stati uomini, donne, bambini a pagarne le conseguenze, i soliti sacrificabili per un bene più grande, quello delle multinazionali e dei loro proprietari.

Nel consueto stile che trasuda arroganza da tutti i pori, quasi elogiando la società dello spettacolo descritta da Guy Debord che trova una splendida incarnazione nello stato nordamericano, il film mette in risalto anche i difetti degli Stati Uniti, ci mostra come nonostante rasentino la perfezione, anche loro sono umani, e in fin dei conti, errare humanum est, e ancora peggio, sebbene il governo statunitense porti avanti decenni di politica estera aggressiva, criminale e guerrafondaia, con che cuore i rivoluzionari iraniani possono perseguitare sei persone solo perché cittadini della nazione più libera del mondo, semplici impiegati di un’ambasciata che come ogni altro vanno in ufficio a espletare compiti di routine come forgiare passaporti falsi e organizzare colpi di stato messi all’ordine del giorno da Washington?

Il film è avvincente, lascia col fiato sospeso anche chi la storia la conosce già, lo spettatore rimane abbagliato per quasi due ore dagli effetti speciali (su questo gli Stati Uniti sono imbattibili, concediamoglielo) e dalla drammaticità che inevitabilmente lo induce a schierarsi dalla parte di sei innocenti, disarmati, indifesi cittadini americani, a sentirsi vicino alla giovane donna terrorizzata e allo sposino novello che vuole proteggere la sua dolce metà che neanche voleva andare in Iran, lo rende partecipe e in qualche modo gli permette di identificarsi in un gruppo di occidentali la cui unica colpa è di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Ma poi il film finisce, si riaccendono le luci della sala, le porte si aprono, e chi ha un minimo di conoscenza dei fatti, viene riportato alla realtà, per riconoscere una pellicola ben fatta, una buona tecnica di regia, bravissimi attori e un potenziale successo sia di pubblico che di critica, un buon prodotto hollywoodiano, che come tale, presenta il suo discreto grado di inesattezza e distorsione.

di Angela Corrias

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