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Arabia Saudita: record di esecuzioni nel 2015

di Lucia Colandrea

Il 17 Novembre scorso il poeta e artista di origini palestinesi Ashraf Fayad è stato condannato a morte per apostasia dal tribunale saudita di Abha. Secondo Amnesty International le accuse sono basate sull’interpretazione di un lettore della raccolta di poesie di Fayad, Instruction Within, pubblicata nel 2008.

Fayad è soltanto l’ultima vittima di un regime oppressivo che nell’ultimo anno ha giustiziato più di 150 persone. Un’ondata di esecuzioni senza precedenti almeno negli ultimi 20 anni. La stampa nazionale ha annunciato che nei prossimi giorni saranno giustiziate altre cinquanta persone, tra le quali anche il giovane al-Nimr e altri due attivisti sciiti, tutti e tre accusati di presunti crimini commessi quando erano ancora minorenni. Amnesty ha condotto una campagna per la revoca della pena di morte sulla base delle torture e dei processi iniqui subiti dai tre giovani. La loro esecuzione violerebbe inoltre un principio fondamentale del diritto internazionale secondo il quale non è possibile applicare la pena di morte ai minori di 18 anni o a persone per reati commessi quando ancora minorenni.

Le cinquanta persone che saranno probabilmente giustiziate a breve sono accusate di terrorismo. Con l’ascesa al potere di re Salman, infatti, la lotta al terrorismo è diventata una priorità. Una lotta condotta sulla base di una legislazione anti-terrorismo vaga e sempre più spesso usata per mettere a tacere le critiche al regime.

Secondo Adam Coogle, di Human Rights Watch, esistono diverse teorie sulle ragioni del notevole incremento dell’uso della pena di morte. Nonostante l’aumento del numero di esecuzioni sia cominciato nell’agosto del 2014, l’ascesa al potere di re Salman, meno liberale di suo fratello, il re Abdullah, ha segnato l’inizio di un periodo di maggiore repressione in Arabia Saudita. Le misure adottate contro chiunque osi protestare contro il regime o semplicemente esprimere delle opinioni che sono percepite come pericolose per la stabilità del regime si sono inasprite. Oppositori politici e attivisti per i diritti umani sono arrestati e trattati come criminali, spesso giustiziati come dei terroristi. Vittime della pena di morte, di solito eseguita con decapitazione e in pubblico, sono spesso attivisti per i diritti umani, sciiti, blogger o intellettuali la cui unica colpa è quella di esprimere liberamente il proprio pensiero.

Adam Coogle fa anche notare che la riforma del sistema giudiziario saudita e l’aumento del numero di giudici e tribunali potrebbe aver influito sull’incremento delle condanne a morte.

Come già documentato dall’ultimo report di Amnesty International, la pena di morte in Arabia Saudita è comminata anche per crimini non gravi, come spaccio o possesso di droga. Quasi la metà delle pene di morte sono state eseguite per crimini che non rientrano nella categoria dei “crimini gravi” che, secondo il diritto internazionale, sono quelli che implicano l’uccisione volontaria. Tra le persone giustiziate nel 2015, decine di persone accusate di crimini non violenti e condannate a morte in seguito a processi condotti in maniera arbitraria e non conformi agli standard internazionali.

James Lynch, vice-direttore del Programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International sottolinea che, sebbene l’uso della pena di morte non sia ammissibile in nessuna circostanza, è ancora più preoccupante il fatto che l’Arabia Saudita continui ad emettere ed eseguire condanne con facilità, violando sistematicamente gli standard internazionali, con processi sommari e spesso motivati da questioni politiche.

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