Ankara-Riyadh, l’asse dei folli pronto all’ultimo colpo di coda
La crisi siriana sta giungendo rapidamente al culmine e il (non) accordo di Monaco ne è la più evidente dimostrazione. Dietro la sbandierata sintonia iniziale del ministro degli Esteri russo Lavrov e del Segretario di Stato Usa Kerry si celano non solo interessi contrapposti, ma l’ormai tacita constatazione di Washington che in Siria le carte in mano le ha Mosca.
Gli Usa hanno tentato di strappare un cessate il fuoco immediato che bloccasse l’ormai inarrestabile avanzata dell’esercito siriano e dei suoi alleati, ma Lavrov è stato irremovibile e, pur accettando l’interruzione dei combattimenti entro una settimana, ha subito specificato che la pressione contro i terroristi sarebbe continuata. E visto che in pratica, ad eccezione (in vero nei fatti assai forzata) del Free Syrian Army ormai al collasso, tutti gli altri gruppi sono considerati da Mosca fuori dall’accordo, l’azione militare continuerà, come d’altronde ha messo in chiaro il presidente Assad, dichiarando (ovviamente) che la lotta continuerà fino all’intera liberazione del Paese.
Chi si sta vedendo mancare il terreno sotto i piedi è Ankara e Riyadh, che assistono al peggior naufragio dei loro progetti. Erdogan ha provato di tutto, da ultimo tentando invano di convincere gli Usa ad istituire una “no fly zone” nel nord della Siria, per congelare la liberazione da parte di Damasco della larga fascia di territorio che da tre anni Ankara controllava a piacimento.
Per Erdogan perdere quei territori è uno scacco bruciante che vanifica il progetto di smembrare la Siria con una sorta di Stato cuscinetto da lui dominato; e lo è doppiamente perché ciò gli impedisce di ridimensionare i curdi siriani che, visti gli sviluppi sul campo, si stanno orientando sempre più decisamente verso Mosca ed Assad. E per questo continua a martellarli con l’artiglieria, per tentare di sloggiarli da quelle posizioni di confine che hanno sottratto ai terroristi (il tutto nella più assoluta indifferenza della comunità internazionale).
In un suo ennesimo azzardo, ha tentato di coinvolgere gli Usa abbattendo due elicotteri e causando la morte di dodici soldati americani impiegati in un’operazione “coperta”, nel maldestro tentativo di addossare la colpa ai Russi. L’unico risultato è stato il raid di due A-10 che, col permesso di Mosca, hanno incenerito un posto di comando dei terroristi nell’area di Aleppo, dove c’erano ufficiali dell’Esercito e dei Servizi turchi.
Adesso, con i giorni che scorrono verso la sua totale sconfitta, sta giocando le sue ultime carte: da un canto ha messo sotto ricatto la Ue usando l’arma di quei migranti che lui più d’ogni altro ha contribuito a creare. L’immagine di una Merkel che corre per due volte alla corte del “sultano” nell’arco di tre mesi a promettere miliardi e la piena comprensione è ignobile, resa più rivoltante dalla totale acquiescenza delle Cancellerie europee a un fatto di enorme gravità e sulle cui motivazioni i media hanno calato una colpevole cortina di silenzio.
Dall’altro sta preparando l’ennesimo colpo di testa dettato dalla sua paranoica ambizione: invadere la Siria. Il fatto che laggiù ci siano russi ed iraniani sembra non scoraggiarlo dalla sua scommessa del tanto peggio tanto meglio, vaneggiando che, in ogni caso, avrebbe la Nato dietro di sé. Che Washington non abbia la minima intenzione di farsi coinvolgere in uno scontro dagli sviluppi inimmaginabili sembra non fermarlo, malgrado il brutale avvertimento del raid degli A-10.
Nei giorni scorsi c’è stato un incontro riservato fra alti ufficiali turchi e sauditi, in vista di un coordinamento delle operazioni che vedrebbero i primi entrare da Nord e i secondi da Sud, attraverso una Giordania compiacente. Inoltre, recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri turco Cavusoglu, hanno confermato che Riyadh starebbe inviando aerei e uomini presso la base turca di Incirlik in vista di un’azione congiunta in territorio siriano.
I recenti annunci sauditi in merito ad un possibile impegno terrestre in Siria devono essere inquadrati in questo scenario, con gli altri Paesi del Golfo già dichiaratisi pronti ad accodarsi, e voci trapelate da fonti saudite che parlano di una partecipazione (è ovvio, dietro lauto pagamento come in Yemen) degli Eserciti di Egitto, Sudan e chissà chi altri.
Fonti riservate, ma non ancora verificate, hanno riferito di colonne meccanizzate sull’Autostrada del Deserto (in territorio giordano) in direzione del governatorato di Dara’a, nell’estremo sud della Siria (nei calcoli folli dei sedicenti invasori, a tre ore di carro da Damasco). Laggiù, Jaysh al-Islam e Ahrar al-Sham (due gruppi terroristi al soldo di Riyadh e del Qatar) stanno per essere spazzati via insieme alle ambizioni saudite.
Come l’Arabia Saudita pensi d’imbarcarsi in una nuova ed infinitamente più dura avventura militare, che la vedrebbe opposta a pesi massimi come Russia ed Iran quando non le riesce di venire a capo ormai da un anno della disastrosa campagna yemenita, in cui ha collezionato solo umiliazioni, è un mistero che farebbe ridere se non fosse impregnato di troppo sangue.
Il fatto è che i Sudairi, il clan della famiglia reale Saud che ha preso tutte le leve del potere, sa di non avere scelta e di aver poco da perdere. La fallimentare campagna in Yemen e il pessimo risultato della guerra petrolifera che sta inaridendo le casse saudite, uniti all’arrogante quanto inetta gestione del potere, hanno suscitato un generale scontento nel resto della famiglia reale che, secondo diverse fonti concordanti, potrebbe sfociare a breve in un colpo di palazzo che destituirebbe gli attuali vertici.
I Sudairi hanno il disperato bisogno di un successo che li puntelli; se non l’otterranno presto cadranno nel peggiore dei modi, se falliranno in un nuovo azzardo avranno solo anticipato la loro fine.
Alla base dei miserabili progetti di Ankara e Riyadh c’è sempre il calcolo che alzando irresponsabilmente la posta in gioco, gli Usa sarebbero comunque costretti a intervenire. Agli occhi di Erdogan, l’appartenenza alla Nato della Turchia spingerebbe Washington a scendere in campo, pena l’irreparabile depotenziamento della sua deterrenza, soprattutto agli occhi dei Paesi dell’Europa Orientale, facendo naufragare sia la politica di contrapposizione con la Russia che la valenza stessa dell’Alleanza. Dall’altra parte, nei calcoli sauditi, le potentissime lobby ebraiche e quelle tradizionali del petrolio e degli armamenti avrebbero tutto da guadagnare in uno scontro contro l’arcinemico Iran.
Ma gli Usa, e per primo un Obama a fine mandato, si farebbero trascinare in uno scontro immane dagli sviluppi incontrollabili, per ragioni diametralmente opposte a ciò che (non) ha fatto in due mandati? Certo, le pressioni sulla sua Amministrazione sono fortissime, e lo testimonia il crescente inasprimento delle dichiarazioni a cui è costretto Kerry dinanzi a Lavrov, compresa la ripetuta minaccia di un intervento di terra se Damasco non fermerà la sua avanzata, ma è sostanza o forma per non perdere la faccia durante la campagna elettorale Usa?
Sia come sia, la crisi siriana è giunta allo snodo finale: con la prossima liberazione di Aleppo e la messa in sicurezza con il confine nord con la Turchia da un canto, e dall’altro l’eliminazione dei terroristi dall’area di Damasco e di Dara’a, con la chiusura dei valichi con la Giordania, la prima fase della partita sarà definitivamente chiusa. Da contrastare rimarrà solo un Isis già largamente indebolito e più volte costretto alla ritirata.
Ora o mai più, è il momento dei colpi di coda disperati di chi ha puntato tutto sulla distruzione di un Paese (e non solo della Siria) per rinsaldare su montagne di cadaveri il proprio potere e i propri privilegi. Comunque sia, è certo che molto è cambiato in questi ultimi anni, e i fatti che viviamo lo dimostrano; come pure il fatto che nessuno ha mai fermato la Storia una volta che si è messa in movimento.