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Ancora sui droni

di Alessandra Riccio

Il 15 febbraio scorso il Tribunale Federale degli Stati Uniti ha deciso che l’amministrazione Obama non è giustificata a mantenere il segreto sugli attacchi degli aerei senza pilota e ha ingiunto di dare risposta alla domanda di Associazioni come quella per le Libertà Civili (Aclu) che da tempo sospetta che il Presidente sia reo di abuso di potere nella questione dei droni. Adesso, alle associazioni, si è unita anche la destra repubblicana che, addirittura, in occasione della conferma della nomina del nuovo Direttore della Cia, Paul Brennan, ha spinto il senatore Rand Paul a parlare per tredici ore consecutive al fine di bloccarne la nomina se la Casa Bianca non si decideva a dare spiegazioni sull’uso dei droni. Messa alle strette, l’amministrazione ha chiarito che Obama non ha avuto né avrà potere per autorizzare l’uso di questi ordigni contro cittadini nordamericani e in territorio nordamericano, aggiungendo che fuori dal proprio territorio, quelle micidiali incursioni devono essere giustificate dal Dipartimento di Giustizia.
Ma la questione è ormai di grande attualità, visto che un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che nel 2012 il numero di bombe lanciate dai droni in Afganistan è raddoppiato rispetto all’anno precedente. A questa informazione si aggiunge il fatto che, “grazie” all’uso degli aerei senza pilota, le vittime innocenti sono significativamente diminuite. Un argomento che, per l’etica politica nordamericana, gioca a favore dell’uso di questi freddi marchingegni, proprio come la ghigliottina sembrava – secondo i criteri della ragione – preferibile rispetto all’impiccagione.
Il Pentagono, dunque, usa senza scrupoli queste moderne armi da guerra che comunque vengono controllate e usate con un minimo di trasparenza. Ma quando ad impiegarle è la Cia, in Pakistan, in Arabia Saudita o nello Yemen, il discorso è diverso; secondo uno studio della New American Foundation, durante l’amministrazione Obama sono morti a causa degli attacchi di droni fra le 1.507 e le 2.438 persone, una parte delle quali erano civili. Ma al di là dei numeri, la ricostruzione dell’eliminazione del cittadino statunitense Al Aulaki, esemplifica bene fino a che punto questa pratica in espansione è pericolosa e come la responsabilità di farne uso comporta il forte sospetto di un abuso di potere.
Tre giornalisti, Mark Mazzetti, Charlie Savage e Scott Shane ne hanno fatto una ricostruzione su “El País” del 16 marzo scorso. Al Aulaki, cittadino statunitense, nel 1999 era già sotto la lente del Fbi, dopo l’11 settembre 2001 viene interrogato per i suoi vincoli con tre dei sequestratori ma all’epoca il predicatore è considerato ancora un mediatore moderato. Nel 2002 Aulaki lascia gli Stati Uniti per Londra per trasferirsi subito dopo in Yemen dove viene arrestato per 18 mesi su richiesta degli Stati Uniti. La rottura con il paese di cui è cittadino è ormai compiuta; il predicatore si rende conto del fatto che gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra all’Islam per cui va assumendo un ruolo sempre più battagliero nelle sue esortazioni che, grazie alla scioltezza del suo inglese, vengono ascoltata particolarmente in Usa, in Canada e in Inghilterra. E’ stato considerato responsabile della sparatoria del maggiore Nidal Malik Asan a Fort Hood dove morirono 13 persone. Nel dicembre del 2009 Umar Faruk Abdulmutala, un nigeriano di 23 anni, fu bloccato a Detroit mentre abbordava un aereo con una bomba nascosta nelle mutande; in questo caso, il predicatore fu indicato come l’istigatore dell’attentato dallo stesso aspirante a martire. Da quel momento, Al Aulaki è diventato un bersaglio per la Cia che lo ha rintracciato, seguito, monitorato fino al giorno in cui, mentre saliva su un camion per un ennesimo spostamento allo scopo di depistare i segugi, un drone implacabile lo ha raggiunto e fatto fuori insieme a Samir Khan, anche lui cittadino statunitense. Nonostante il silenzio con cui Cia e Pentagono hanno tentato di coprire quell’operazione, essa è venuta a luce anche a causa dell’impegno del padre di Al Aulaki , sostenuto da un gruppo di difesa delle libertà civili, per fare chiarezza sulla morte del figlio ma anche del nipote di sedici anni, anche lui vittima di un altro attacco di drone, il mese dopo, quando il ragazzo aveva lasciato la casa materna per andare alla ricerca del padre. Il tribunale a cui si era rivolto quel genitore si sentì dire dal Governo che la giustizia non era autorizzata a visionare le decisioni del potere esecutivo in operazioni di guerra, coperte dal segreto di stato. Un patto fra la Cia, il Pentagono e il governo yemenita, consente qualsiasi operazione in quel territorio, purché l’amministrazione degli Stati Uniti mantenga quelle operazioni nel segreto. La morte di Al Aulaki – bersaglio perseguito dalla Cia – e quella di Khan, altro cittadino statunitense, eliminato come danno collaterale, e infine quella del giovane Abdulrahman Al Aulaki, anche lui nordamericano, insieme ad altre 13 persone per lo scoppio di un missile su una trattoria di Shabwa, ha fatto saltare la segretezza. Adesso, gli avvocati si arrampicano sugli specchi per dare una parvenza di legalità all’eliminazione mirata dei nemici degli Stati Uniti, preparata dalla Cia e autorizzata dal Presidente Obama.

Fonte: http://www.giannimina-latinoamerica.it/2160-ancora-sui-droni/

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