Ancora scontri a Hong Kong, nessun accordo con il governo
Da diversi giorni una protesta sempre più forte scuote Hong Kong; domenica scorsa la polizia è intervenuta violentemente per sgombrare piazze, vie e incroci nevralgici occupati dai dimostranti, ma manganelli, spray urticanti e idranti non sono riusciti ad averne ragione, anzi, quella protesta assolutamente pacifica s’è dilatata ancora. Accanto agli studenti, i primi a scendere per le strade, si sono aggiunti i loro familiari, operai, gente qualunque che ora, da cinque giorni, presidiano vaste parti della città, chiedendo le dimissioni del Chief Executive (il capo del Governo locale) Chun-ying Leung; si sono spinti a lanciargli un ultimatum che scade alla mezzanotte di giovedì: se non si dimetterà occuperanno i palazzi del potere.
La protesta, che è guidata dal Movimento Occupy Central for Love and Peace, ha radici che vengono da lontano: Hong Kong era una colonia britannica e venne restituita alla Cina l’1 luglio del ’97; allora era la più importante piazza finanziaria d’Asia e Pechino, che a quel tempo s’era appena incamminata nella crescita che l’ha portata ad essere la potenza globale che è adesso, voleva che la gallina dalle uova d’oro non venisse turbata nel passaggio. In base agli accordi presi con Londra sintetizzati nella formula “un Paese, due sistemi”, le concesse lo status di Regione Autonoma Speciale e una lunga serie di privilegi politici, sociali ed economici impensabili sul Continente e destinati a durare fino al 2047; una cosa però il Governo centrale aveva chiara: il sistema legislativo e giudiziario potevano rimanere autonomi, ma in un modo o nell’altro l’esecutivo doveva essere espressione di Pechino. In poche parole, la città poteva e doveva mantenere il suo ruolo di hub finanziario globale e di porta d’accesso privilegiato al crescente mercato cinese, ma era fuori discussione che il controllo dovesse rimanere in mano al Dragone.
Non staremo qui a spiegare per esteso il complesso sistema instaurato per mantenere il completo controllo su Hong Kong, si basa su una serie di Commissioni, Comitati e Dipartimenti, attraverso cui, in modo ufficiale ed ufficioso, il Partito Comunista cinese mantiene il potere vero; nella sostanza, attraverso una serie di cooptazioni e di designazioni di chi è completamente allineato, sono poche e scarsamente influenti le voci che possono rimanere fuori dal coro. Il fatto sostanziale è che l’elite economica, lasciata libera d’arricchirsi senza problemi, e comprata in mille modi da Pechino, ha tutto l’interesse di mantenere i migliori rapporti con il Governo centrale, ed è essa, insieme agli uomini dell’apparato del Partito Comunista, che controlla tutte le strutture amministrative. A quella gente, di bazzecole come libertà civili, di stampa e di rappresentanza non importa nulla, anzi, le vede come ostacoli al perseguimento dei propri interessi.
Tuttavia, per salvare le forme (lì più che mai importanti) Pechino ha concesso che nel 2017 i cittadini di Hong Kong possano eleggere a suffragio universale il Chief Executive, ma c’è un però: potranno sceglierlo soltanto fra una rosa di nomi scelti con procedure e criteri analoghi a quelli che designano i componenti di Commissioni e Comitati; una semplice finzione di democrazia che ha innescato i malumori di parte della società (quella più estranea ai privilegi della finanza e del Partito Comunista) sfociati nelle manifestazioni odierne, che chiedono elezioni veramente libere.
Il fatto è che Pechino considera il voto una semplice “procedura democratica” per sancire la selezione di candidati già individuati con altri criteri; per lei l’Occidente ha una diversa concezione della democrazia che nulla ha a che spartire con la realtà cinese. E il fatto che a Hong Kong fra i vari partiti presenti non figuri il Partito Comunista è emblematico; se scendesse in competizione con essi negherebbe la sua funzione essenziale e irrinunciabile di partito unico; in pratica è come se li lasciasse giocare sugli aspetti irrilevanti, ma decidesse da dietro (e senza appello) su tutto ciò che è importante.
Hong Kong è stata importantissima per lo sviluppo del Sistema Cina, di qui l’interesse a usare sin’ora la mano leggera per non guastare il giocattolo prezioso, ma il suo peso sta diminuendo, scalzato dall’ascesa di Shenzhen, Guangzhou e, soprattutto, Shanghai (dove è stata avviata la creazione di una free trade zone), destinata dal Governo a divenire il nuovo centro dell’economia cinese.
Il Dragone è ormai cresciuto e può permettersi di ridimensionare la rilevanza economica di Hong Kong e con essa la sua “diversità”, sempre più scomoda e pericolosa per i pericoli di “contagio” di domanda di democrazia sul Continente. Fra alcuni anni, le richieste democratiche della città avrebbero assai meno peso, anche all’interno; la dirigenza cinese ritiene che il crescente benessere depotenzierebbe di molto il diffondersi di proteste. In ogni caso, la necessità di usare il guanto di velluto per non danneggiare il gioiello sarebbe assai diminuita.
Resta la situazione attuale con le piazze piene di dimostranti; è difficile immaginare l’evoluzione di una situazione con troppe incognite, ma i tempi di Tienanmen sono lontani, troppe cose sono cambiate e, a meno di colpi di testa dei dimostranti, che legittimerebbero una prova di forza, non sono pensabili sviluppi del genere. D’altronde, a una vasta parte della popolazione va benissimo il sistema quale è adesso, con i suoi privilegi e le possibilità di arricchimento; per molti la parola libertà è vuota. La dirigenza cinese è ovviamente nervosa per il timore che la protesta s’allarghi, ma sa che il tempo lavora per lei.