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Africa in sviluppo tra filantropia, afrocapitalismo e rimesse della diaspora

Africa – Dopo il trauma della decolonizzazione, l’Occidente, quasi a sgravarsi la coscienza, ha invaso di aiuti il continente africano, a cui in sessant’anni è stato erogato più di un miliardo di dollari, con scarsi risultati positivi da mostrare. Non aveva torto Lord Bauer, quando nel 1972 dimostrava il fallimento degli aiuti stranieri, del Foreign Aid che non è altro che “rubare ai poveri dei Paesi ricchi, per dare ai ricchi dei Paesi poveri”, col risultato che l’afflusso di denaro dall’estero, erogato a fondo perduto, ha sviluppato una sorta di dipendenza, perpetuando una classe dirigente a vocazione parassitaria in attesa di nuovi bottini, senza che i fondi stanziati arrivino ai bisognosi.

africaDopo che le grandi parate del “Live Aid” hanno generato clamore mediatico: produzione di appelli a mezzo di appelli, e soprattutto, dopo che il privato, e non il pubblico, ha dimostrato al giro di boa degli anni Duemila di sapere fare dello sradicamento della povertà un obiettivo, i confini tra investimenti privati e filantropia si sono fatti sempre più indistinti. Sta di fatto che in Africa il buon Samaritano ha trovato il suo paradiso.

Un solo esempio per tutti. All’inizio del 1999, gli scienziati presso l’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia hanno raccolto fondi per il “Programma Internazionale sulla Biotecnologia del Riso”, un programma creato dalla Rockefeller Foundation per la ricerca nel settore delle biotecnologie. L’obiettivo era quello di modificare geneticamente il riso con vitamina A. Undici anni più tardi, nel 2001, i risultati sono stati annunciati con il titolo: “Questo riso potrebbe salvare un milione di bambini l’anno”, attirando nuovi investitori per una tecnologia che era ancora nei laboratori.

Una dimensione importante, ma meno nota è stato il trasferimento dei risultati della ricerca da parte del settore pubblico ad una società privata, la Syngenta, in cambio di assistenza nel quadro dei negoziati sulla proprietà intellettuale. Nel 2002 i materiali sono stati trasferiti all’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine. Qui, un gruppo di inventori, i donatori (tra cui la Rockefeller Foundation) e un rappresentante della Syngenta hanno rilasciato la licenza di introdurre la nuova varietà in climi tropicali del Sud-Est asiatico, poi più tardi in Africa.

Ora figure chiave del settore privato stanno promuovendo in Africa nuovi modelli di investimento filantropico. Si tratta dell’afrocapitalismo, noto anche come “venture philanthropy” o “filantro-capitalismo”, che combina spudoratamente l’investimento con utili maggiori del capitalismo di libero mercato, al fine di stimolare lo sviluppo economico. Alcuni autori si sono affrettati a spiegare che, gestito correttamente, il modello potrebbe sorpassare gli aiuti come il principale modo per alleviare la povertà.

Un capitalismo diverso per il continente africano?

Questo è ciò che sembra credere l’imprenditore nigeriano, Tony Elumelu, uno dei business-man di maggior successo in Africa, miliardario che ha fondato la United Bank for Africa, ed ha battezzato la sua convinzione (un neoliberismo aggiornato e addomesticato) come “africapitalismo”, il capitalismo in versione afro, per descrivere la chiave per il benessere futuro del continente.

Indubbiamente, se sei uno di quegli investitori alla ricerca di nuove opportunità per moltiplicare i tuoi benefici, non si può ignorare l’attività dinamica del continente. Si grida ad alta voce. L’Africa sub-sahariana ha sei delle dieci economie in più rapida crescita in tutto il mondo negli ultimi dieci anni, anche se il Pil non dà da mangiare all’80 per cento della popolazione.

L’idea è quella di “mettere il settore privato in prima linea nello sviluppo del Continente”, si legge a caratteri cubitali sul sito della Heirs Holding, società di investimento di cui Elumelu è presidente. Subito sotto c’è la definizione: “L’Africapitalismo è una filosofia economica secondo la quale il settore privato africano ha il potere di trasformare il Continente attraverso investimenti a lungo termine, creando sia prosperità economica che ricchezza sociale”.

Accanto a filantropi classici, come Bill Gates, Bono, la Ford Foundation, Soros, Charity Water investitori filantropi africani usano la loro ricchezza per generare business e posti di lavoro, investendo in mega-progetti come il Gran Inga Dam, diga idroelettrica sul fiume Congo (progetto di 80 miliardi di dollari con inizio lavori ottobre 2015), il Progetto ferroviario tra Kenya, Uganda e Ruanda, (progetto di 13 miliardi di dollari), l’African Silicon Savannah, la ferrovia Etiopia e Gibuti, la grande diga etiope rinascimentale, con costi di 4.700 miliardi di dollari, enorme barriera montata dalla società di ingegneria civile italiana Salini Costruttori.

Per troppo tempo gli aiuti occidentali, la filantropia e gli investimenti privati sono visti come motori di sviluppo, in particolare della finanza, in Africa, senza porre in evidenza un altro fattore. Secondo un rapporto pubblicato dalla Foundation Center, nel 2010 donazioni internazionali, fondazioni statunitensi e britanniche hanno versato circa 355 milioni di dollari in Africa.

Sono valori molto sorprendenti, ma forse niente a confronto dei 40 miliardi di dollari giunti all’Africa nello stesso anno tramite le rimesse della diaspora africana, che supera i finanziamenti da fondazioni private e agenzie bilaterali e multilaterali, crescendo da allora fino ad arrivare a 60 miliardi di euro all’anno. Le sovvenzioni di africani come Tony Elemulu stanno cercando di coinvolgere queste risorse all’ombra dell’afrocapitalismo.

Le Comunità della diaspora africana, nonostante tutte le promesse di potenziale finanziario e umano, saranno in grado di fornirsi di un meccanismo efficace per non essere sopraffatte dalla filantropia strategica e dall’afrocapitalismo finanziario, contro l’evidenza del fatto che il capitale si nutre di se stesso?

di Cristina Amoroso

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